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Cor-rispondenze

lunedì 7 marzo 2016

Capacità e ruoli



Caro professore,
osservando la nostra società, nella quale ognuno tende a preoccuparsi solo della propria sopravvivenza e del proprio tornaconto, al punto di occupare anche ruoli di grande responsabilità senza averne le competenze, ho ripensato a ciò che sosteneva Platone nella “Repubblica”. Egli infatti, descriveva lo stato  ideale come un luogo in cui ognuno svolge un ruolo specifico, che gli viene assegnato in base alle proprie qualità e predisposizioni, ottimizzando quindi ogni singola mansione sociale. Per Platone dunque, lo stato è più importante dei desideri e delle ambizioni del singolo individuo ed è fondamentale evitare l’estrema povertà e l’estrema ricchezza. Mi sono allora chiesta: perché abbiamo smesso di preoccuparci del benessere della società, che in fondo risulta essere anche il nostro, per preoccuparci esclusivamente di quest’ultimo, dimenticando che, occupando ruoli per cui non abbiamo le competenze, rischiamo di danneggiare anche noi stessi, oltre che gli altri?
Deborah, VA
 
Cara Deborah,
Prima ancora di Platone è Pericle a sottolineare l’importanza delle «qualità e delle predisposizioni» di coloro che sono chiamati a governare, quando, nell’orazione che ci ha tramandato Tucidide, egli afferma che: «Le nostre leggi assicurano un’eguale giustizia a tutti […], ma noi non ignoriamo le istanze dell'eccellenza. Quando un cittadino si distingue, allora egli è preferito per il servizio pubblico, non come un fatto di privilegio, ma come ricompensa per il merito». E qualche anno dopo, anche Platone, preoccupato della giustizia, sostiene che al governo è preferibile che ci siano coloro che hanno sviluppato la saggezza e hanno fatto un lungo percorso di formazione per poter amministrare la città. L’idea di privilegiare il merito è stata una conquista. Occupare ruoli per i quali non si hanno competenze non è una degenerazione irritante ed esclusiva del nostro tempo. Nell’Europa del XVI sec. si era già venuta a creare una frattura tra potere e virtù. Secondo Peter Sloterdijk: «S’impose così un’aristocrazia sfruttatrice non meritocratica, la cui unica attività consisteva nel trasmettere in modo ripetitivo la sua tronfia autocoscienza ai discendenti, ugualmente inutili, e spesso per molti secoli». Il filosofo ricorda come l’aristocrazia si era trasformata in «una miscela di pigrizia, ignoranza e crudeltà […] (la corte di Versailles fu solamente l'apice in un arcipelago d'inanità nobiliare che ricopriva l'Europa intera)». Non solo in Francia, ma anche in Inghilterra. Lo storico Lawrence Stone (La crisi dell’aristocrazia, Einaudi 1972) riporta i versi del poeta inglese John Skelton (1460-1529) che connotano efficacemente il declino dei nobili: «gli uomini nati nobili / hanno in odio l’imparare / amano soltanto andare a caccia e suonare il corno / saltare a cavallo laghi e fossati / non occuparsi di politica» (p. 738). E con amarezza lo scrittore politico Thomas Starkey (1499-1538) affermava che «da noi i gentiluomini si studiano di più di allevare dei buoni cani che degli eredi intelligenti» (p. 739). In fondo, dice Stone, una delle funzioni del gentiluomo era quella di «vivere oziosamente con grazia ed eleganza». Ma l’ignoranza danneggiava l’amministrazione, il commercio e la vita comune. Infatti nell’esercito non saranno più ammessi rampolli ignoranti. Gli uomini si ribellarono a queste manifeste ingiustizie. L’ignoranza degli aristocratici permise pertanto l’ascesa di funzionari che provenivano dal basso e che si erano impegnati negli studi e conoscevano almeno una lingua straniera. Qualche anno dopo, il liberale francese Alexis de Tocqueville, dopo essere sbarcato  in America (1831), analizzò pregi e difetti della democrazia d’oltre oceano e pubblicò le sue riflessioni nel libro La democrazia in America (1835-1840). Anch’egli si lamentava del fatto che spesso non erano i migliori a governare: «Al mio arrivo negli Stati Uniti fui molto sorpreso scoprendo fino a qual punto il merito fosse comune tra i governati e come fosse scarso nei governanti. È un fatto costante che oggi, negli Stati Uniti, gli uomini più notevoli sono raramente chiamati alle pubbliche funzioni e questo fenomeno si è accentuato via via che la democrazia ha oltrepassato i vecchi limiti. È evidente che la razza dei grandi uomini di stato americani è singolarmente degenerata in questo ultimo mezzo secolo». Ma più avanti, quando passerà a descrivere i meriti della repubblica americana, affermerà che «La poco numerosa assemblea, che si incaricò di redigere la seconda costituzione, comprendeva i migliori spiriti e i più nobili caratteri che fossero mai apparsi nel nuovo mondo. George Washington la presiedeva». Per creare qualcosa di grande c’erano dunque i migliori. I migliori occupavano il posto giusto. E in Italia? Forse anche qui, spesso, il merito è presente più tra i governati che tra i governanti. Il nostro tempo, però, non sembra più tollerare le persone «sfruttatrici non meritocratiche». Come nel passato, coloro che danneggiano a lungo andare sono i veri danneggiati e coloro che meritano pian piano si impongono. Purtroppo con eccessiva fatica e con tempi biblici, ma la società non si può più permettere fannulloni e incapaci, perché per risolvere questioni complesse in ogni settore servono persone preparate e competenti.
Un caro saluto,
Alberto

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