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Cor-rispondenze

lunedì 29 febbraio 2016

Sofferenza e crescita

Crescere come scrittori

Caro professore,
Nel corso dell’anno scolastico la sensazione che l’uomo per crescere debba necessariamente soffrire si è sempre più affermata. Sembra che solo soffrendo l’uomo possa comprendere la sua vera natura e la profondità e l’irrazionalità del mondo in cui vive. Oltre a giganti della letteratura, come Pascoli, Pirandello o Leopardi, ho studiato alcuni filosofi che hanno sofferto nella vita ed hanno scavato nelle profondità dell’esistenza umana per scoprirne le verità e comprenderla pienamente. Il primo è stato Arthur Schopenhauer, il quale ha dedotto che il mondo per l’uomo non è nient’altro che volontà e rappresentazione. Purtroppo ha dovuto patire la perdita del padre morto suicida quando egli era ancora adolescente. Il secondo è stato Søren Kierkegaard. Il filosofo danese ha posto al centro della sua filosofia il singolo, l’individuo umano e l’importanza delle scelte che determinano l’esistenza. Egli ha avuto un terribile rapporto con il padre (a causa del secondo matrimonio) e ha sofferto la morte di cinque suoi fratelli. Ed infine Nietzsche, il quale traendo spunto dalla cultura greca dei presocratici ha dimostrato l’impossibilità di dominare la vita con la ragione, sostenendo così l’irrazionalità dell’esistenza di ogni uomo. Ha sofferto per buona parte della sua vita di una malattia celebrale che negli ultimi anni lo ha portato alla pazzia. Questi tre grandi filosofi sono tre esempi che dimostrano l’impossibilità dell’uomo di crescere se trascorre una vita nella completa felicità e nella perfezione. Lo stesso Nietzsche ha affermato: “Le specie non crescono nella perfezione: i deboli tornano sempre di nuovo a soverchiare i forti […] i deboli hanno più spirito”. Sembra che una vita felice sia una vita vissuta nella superficialità senza una percezione della vera profondità della vita. Ma perché è così? Perché l’unico modo per l’uomo di conoscere sé stesso, e l’importanza della propria esistenza, avviene nella sofferenza? L’uomo nella sofferenza evolve, muta, cambia la sua concezione del mondo scoprendo com’è la realtà vera e propria. Un esempio più vicino a noi è l’esperienza del “treno della memoria” fatta da Daniela e Alberto (due miei compagni di classe). Il “treno della memoria” consiste in viaggio nei luoghi simbolo dell’Olocausto per ricordare e non dimenticare mai questo terribile e inumano avvenimento. Questa esperienza naturalmente li ha cambiati. Ora hanno un’altra visione del mondo, a parer mio totalmente migliore rispetto a prima, molto più profonda. Alberto è rimasto scioccato e ha tuttora ha bisogno di tempo per riprendersi. Daniela invece ha detto che ora comprende l’importanza della vita di ogni singolo individuo. Ella inoltre ha affermato che ha una maggiore cognizione che di fronte a sé ha degli uomini con le stesse aspirazioni, che possiedono desideri e con gli stessi sentimenti ed emozioni che ha lei stessa. Ma la mia domanda, che ho già citato in precedenza, ritorna. Ma perché l’uomo deve necessariamente soffrire e vedere le atrocità, le bruttezze, le insensatezze di questo folle mondo per comprendere che la vita è importante, che la nostra esistenza è importante, che tutto è irrazionale e che siamo solamente delle nullità in confronto alla grandezza del tutto e nessun individuo umano è al centro del tutto? Perché bisogna scavare negli oscuri e atroci abissi della vita per comprenderla del tutto?
Alessandro, VA
 

Caro Alessandro,
Maturità psicologica e maturità esistenziale sono legate ed entrambe attraversano la sofferenza. Per diventare grandi si deve soffrire, perché ogni piccolo processo di crescita implica la trasformazione e dunque l’abbandono di una condizione armonica acquisita nel tempo: gli eventi della vita e la loro interpretazione dissolvono le certezze e fanno impallidire le più ostinate persuasioni e ogni persona deve superare ostacoli e pensieri contrastanti per conseguire una nuova forma di equilibrio. Ma poi c’è una maturità esistenziale. Che ci sia un rapporto tra conoscenza e dolore era cosa ben nota agli antichi. Il filosofo Umberto Curi scrive pagine bellissime su questo rapporto, ricordandoci «che la “sofferenza” (páthos) possa produrre “conoscenza” (máthos) è convinzione che affiora ripetutamente in numerosi testi del mondo greco arcaico e classico». Nella tragedia Agamennone di Eschilo, infatti, nella preghiera a Zeus il Coro attribuisce alla divinità il merito di aver condotto l’uomo a essere saggio: «Zeus a saggezza avvia i mortali, / valida legge avendo fissato: / conoscenza attraverso dolore (Eschilo, Agamennone, v. 176 e ss)». La frase del Coro non si riferisce alla fatica di acquisire nuove nozioni, afferma piuttosto che il dolore fornisce all’uomo un nuovo sapere di sé. Qual è la peculiarità della conoscenza, allora? Conoscere non si riduce ad un generico apprendere un’arte o una disciplina. Consiste soprattutto nell’afferrare la propria natura: attraverso il dolore l’uomo scopre l’essenza intrinsecamente effimera della vita, per questo conoscere se stessi è anche un “ri-conoscersi”: nel disvelare la propria natura gli uomini comprendono il proprio destino. Non sono disposti ad ingannarsi, a perdere tempo. Il dolore non lascia spazio a illusioni. Ci ricorda che siamo mortali. Allora scaviamo «negli oscuri e atroci abissi della vita» fino a quando non facciamo esperienza della nostra finitezza. E quando giungiamo a questa dimestichezza con la vita, spesso ci si responsabilizziamo e, come i tuoi compagni, immersi nel dolore collettivo di un popolo, ci chiediamo come continuare a vivere.
Un caro saluto,
Alberto

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