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lunedì 13 gennaio 2020

La rosa di Gerico

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Caro professore,
sono stata in Egitto questa estate e ho comprato delle rose di Gerico. La rosa di Gerico mi stupisce sempre tanto. Una pianta secca che sta ferma, brutta, in un solitario deserto per mesi, anni e aspetta assetata una fonte di acqua e quando questa arriva lei fiorisce, splende di bellezza. E questo avviene nella purezza, nell’acqua pura, limpida. Un corpo non puro non può risplendere e fiorire. Questa sua fioritura può essere paragonata ad una vera e propria rinascita, e noi ogni giorno possiamo rinascere, a parere mio ogni giorno possiamo decidere se vivere o, meglio, rivivere o no, se splendere o no. E se farlo nell’acqua limpida o in quella sporca. C’è una frase che mi riporta a questa riflessione: «chi è deserto non vuole che qualcosa fiorisca in te» di una canzone di Max Pezzali. Spesso noi deserti siamo oscurati da noi stessi e non vogliamo che gli altri fioriscano più di noi. E secondo lei, si può rivivere ogni giorno?
Martina, IA


Cara Martina,
Ci sono almeno due dimensioni di quella che tu chiami fioritura: quella fisica e quella psichica. Non sono necessariamente opposte. Di solito la prima è la premessa anche per la seconda, ma non saprei stabilire una priorità. Talvolta è la rinascita fisica che consente di fare pulizia nei pensieri: dopo un’operazione chirurgica, infatti, la persona ristabilita rielabora la gerarchia di ciò che è più importante. Talvolta è invece a partire dall’adesione a nuovi valori a cui decidiamo di conformare il nostro agire che il fisico può trovare giovamento. E se penso alla tua rosa di Gerico che vaga da un terreno all’altro in cerca di vita, mi vengono in mente le infinite rose di Gerico che hanno attraversato anche solo il Mediterraneo nel corso dei secoli per superare lande desolate e inospitali. Rinascere e ricominciare sono per tutti obiettivi da conseguire, affinché la vita non appassisca o si spenga definitivamente. Dalla Grecia all’Italia, da Roma all’Egitto, dall’Asia alla Turchia, dall’est all’ovest dell’Europa, dall’Africa alla Sicilia e dalla Sicilia all’Africa, dalla Scandinavia, dalla Danimarca e dalla Germania al sud Italia e dal sud Italia al nord Europa. Dalla Francia e dalla Spagna nel nostro Paese e viceversa, ma anche dall’Europa alla Libia e al Marocco e viceversa. Una trama fitta di scambi ha legato le sponde opposte dell’Adriatico così come del Mediterraneo. Per trovare una terra ospitale, confortevole, che custodisse la vita, la memoria e delle storie. La rosa di Gerico è metafora dell’uomo nomade sulla Terra, migratore nella sua essenza. Mi ha pertanto colpito una piccola (grande) vicenda che lo scrittore Maurizio Pagliassotti ha narrato in Ancora dodici chilometri (Bollati-Boringhieri 2019) per mettere in luce le difficoltà e le peripezie dei migranti che dalla Valsusa cercano di giungere in Francia. Egli scrive: «Siamo solo una strana coppia che viaggia, in un mondo assuefatto e distratto. Penso a John, chiuso dentro al bagagliaio piegato nella sua posizione primordiale, speranzoso che tra pochi minuti potrà rinascere in una nuova vita. Io John non lo conosco, un estraneo che però, oggi, rappresenta un intero mondo che comprende anche me». Quella narrata è una storia vera, ma è bella e utile anche nel suo significato simbolico. Immagino questo ragazzo, John, chiuso nel bagagliaio dell’auto – come la tua rosa di Gerico chiusa e sospesa nel vento – ansioso di trovare un luogo anche se non del tutto ospitale almeno non respingente, e a tutti gli altri giovani immigrati chiusi come rose di Gerico, stipati nelle barche o nei bauli di auto, in cerca di terre in cui possano riannodare il filo con una vita interrotta da lunga apnea. Vita fisica e poi psichica o forse al contrario, a partire dall’accoglienza sociale e dunque psichica una rinascita fisica. Dice bene quella storia, oggi l’estraneo «rappresenta un intero mondo che comprende anche me». A partire da quell’episodio penso in primo luogo che ognuno di noi nel suo viaggio sulla Terra custodisca nel proprio bagaglio – nella propria coscienza – la potenziale fioritura di un altro essere umano, fisica e psichica, e ne sia responsabile: ognuno di noi è chiamato a vigilare affinché anche la vita del prossimo – che comprende anche la nostra – sia difesa, tutelata, assistita e garantita perché, come dice la canzone che hai scelto, solo chi ha un deserto interiore può impedire la fioritura di un altro uomo; e in secondo luogo penso che forse un po’ tutti noi, nel corso dell’esistenza, ci muoviamo nel mondo, su mezzi di trasporto gremiti, in mezzo alla folla delle piazze o dei luoghi di lavoro, ma sempre un po’ nella nostra «posizione primordiale», confidando che da qualche parte, ma soprattutto grazie a qualcuno, riusciremo a riguadagnare la nostra forma autentica e ad aprirci; che dopo tanto peregrinare potremo trovare la fiducia e l’amore sufficienti per riprendere a sperare e a vivere, affinché dalla posizione primordiale possano dischiudersi un uomo e una donna autentici. Fuggire da ciò che è arido e inospitale è necessario. Ognuno è però responsabile della fioritura di sé e di quella di chi gli sta accanto. «Rivivere ogni giorno» è possibile, ma impegnativo. Per «splendere» occorre lavorare, per non rischiare di diventare «strane persone» che girovagano assenti in un «mondo assuefatto e distratto».
Un caro saluto,
Alberto

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