Cerca nel blog

Cor-rispondenze

lunedì 21 dicembre 2020

Contro il desiderio

 


«Contro il desiderio è difficile combattere: a prezzo dell’anima acquista ciò che vuole», scrive Eraclito nel VI sec. a. C. La riflessione sulla sete insaziabile che abita ogni essere vivente attraversa tutta la storia della filosofia. I filosofi hanno considerato il desiderio come struttura profonda dell’uomo, nella duplice interpretazione di brama (impulsiva) e di aspirazione (desiderante): esso è stato declinato in “epithymía” dai greci, in “cupiditas” dal mondo latino, in «conatus» da Spinoza, in «volontà» da Schopenhauer e Nietzsche, in «Es» da Freud. Da Platone a Freud conosciamo pertanto la potenza strutturante o destrutturante di tale forza. Platone insegna che è il desiderio a muovere il soggetto e che la ragione non può fare altro che cercare di regolare come può la sua potenza. E Freud dirà non solo che «l’io non è padrone in casa propria», intendendo che il soggetto agisce sotto una potente spinta che non può arginare, ma che  persino il sogno ha a che fare con il desiderio, in quanto «appagamento camuffato di un desiderio rimosso». Tale brama scardina dunque l’Io, fa saltare la parte organizzata della personalità, e chiede il proprio appagamento in ogni modo: è potenza che ottiene ciò che vuole, persino a prezzo dell’anima, in quanto è in grado di soverchiare la parte razionale. La ragione, infatti, evolutivamente viene molto più tardi, la forza originaria è il desiderio. A mostrare la complessità dell’uomo è Platone, che non si limita a distinguere tra ragione (anima) e impulsi (desideri) e a proporre un dualismo fin troppo noto tra ragione e passioni. Egli dice di più. Ossia che la natura umana è composta non da due, ma da tra elementi imprescindibili. Nel “Fedro”, uno dei dialoghi più belli dell’autore, egli afferma che l’anima è composta di tre parti: una razionale, una irascibile e una concupiscibile. Egli parla dell’anima con il mito della biga alata, facendo riferimento ad una coppia di cavalli alati guidati da un auriga. I cavalli rappresentano le due dimensioni del desiderio: quello bianco, la tendenza a creare la natura autentica del soggetto che cerca la realizzazione di sé; quello nero, la propensione verso l’appagamento immediato di natura istintuale. Il cavallo bianco è eccellente: «quello in miglior forma, è di figura dritta e snella, ha la cervice alta, le froge (le narici) regali, il mantello bianco e gli occhi neri, ama la gloria temperata e pudica, [e] ed è amico dell’opinione verace; lo si guida senza frusta solo con l’incitamento e la ragione». L’altro, quello nero, è pessimo: «ha una struttura contorta e massiccia, messa insieme non si sa come, ha forte cervice, collo tozzo, froge vili, mantello nero ed occhi chiari e sanguigni, compagno di insolenza e di vanità, peloso fino alle orecchie, sordo e a stento dà retta alle sferzate della frusta». Il compito del cocchiere è difficile, perché deve mediare tra due forze. Così il desiderio può essere rovinoso: può anche portare l’uomo alla dissipazione di sé impedendogli di scoprire la sua vera natura, ed è per questo che la mancata regolazione di esso e la sottomissione agli impulsi primitivi possono condurlo alla rovina. Solo l’integrazione equilibrata tra i vari elementi della personalità – come oggi si interpreta il mito platonico –, permette di realizzare la specifica natura di ogni essere umano. C’è un altro modo, però, di intendere la frase di Eraclito. Discende dalla traduzione del concetto di anima in “sostanza” immateriale. Ha certamente una connotazione religiosa e richiama la condizione di un possibile commercio di essa. Anche oggi, infatti, si usa l’antica espressione: «Vendere l'anima al diavolo», per descrivere più comunemente il comportamento di chi accetta qualsiasi compromesso pur di trionfare. La letteratura insegna che coloro che si sono serviti di ogni espediente per appagare le loro ambizioni hanno ottenuto vantaggi apparenti ed hanno corrotto in modo irrimediabile la loro anima per l'eternità. L’idea di vendere l’anima al diavolo è stata rappresentata in maniera bellissima da Wolfgang Goethe nel “Faust”. E dopo di lui non solo grandi letterati, ma anche straordinari musicisti, come Gounod (“Faust”), Liszt (“Mephistowalzer”) e Berlioz (“La damnation de Faust”), hanno elaborato il tema della dannazione dell’uomo che è disposto a mercificare se stesso per ottenere ricchezza, fama o conoscenza. Nel 1947 Thomas Mann pubblica l’opera “Doctor Faustus. La vita del compositore tedesco Adrian Leverkühn narrata da un amico”. Egli narra la storia del musicista Adrian Leverkühn che, come Faust, ha ottenuto dal demonio anni di eccezionale attività artistica e fama in cambio della vendita dell’anima e dunque della propria dannazione. Scrive Adrian Leverkühn: «volendo acquistar fama a questo mondo, stipulato avea con lui una promessa e un patto, di maniera che tutto quanto feci nello spazio di ventiquattr'anni e ciò che gli altri giustamente con diffidenza osservarono poté avvenire meramente col suo aiuto ed è opera diabolica, istillata dall'angelo del veleno». C’è dunque un desiderio che si rivolge esclusivamente al possesso di qualcosa: tale impulso snatura l’uomo, perché lo incatena al godimento e al consumo immediato. Ma c’è un desiderio che spinge all’autorealizzazione: è l’energia che permette di autoregolarsi e di fare della propria vita un’opera d’arte. In questo caso l’uomo non vende l’anima, la realizza.

Un caro saluto,

Alberto

Nessun commento: