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Cor-rispondenze

lunedì 14 dicembre 2020

Nascere

 


Vi siete mai posti il dilemma di Amleto: «Essere o non essere?» Se sia meglio essere venuti al mondo o meno, se valga la pena affrontare le fatiche della vita, combatterne i mali, resistere alle avversità, attraversare le disgrazie? Bene, non fatene una questione personale: nascere e morire fanno parte di un destino che non è riservato solo all’uomo. Non siamo gli unici esseri che compaiono e poi scompaiono. Per Anassimandro, uno dei primi filosofi antichi di Mileto, la vera realtà è l’infinito («ápeiron»), ciò che è «senza limite». Da esso si originano il regno inanimato e quello animato, tutti gli oggetti e le forme viventi: le rocce, i fiumi, i vegetali, gli animali e gli uomini. La nascita si origina proprio lì, come un flutto che si erge dal mare e nel mare ritorna. Dice Anassimandro: «Principio degli esseri è l’infinito... da dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo». Innumerevoli mondi si generano e si succedono in un ciclo eterno; ma questo emergere dall’infinito per differenziarsi – diventare enti – non dura sempre: il finito è una sorta di eccentricità, una volontà di rompere l’equilibrio dell’unità del tutto; ma questa determinazione si paga: è considerata dal filosofo una colpa o un’ingiustizia («adikía»). Così, tutto ciò che affiora da questo sfondo illimitato, e si determina a partire da esso, poi torna nella sterminata immensità dello spazio. Non vi basta questa spiegazione? Se volete saperne di più potete sempre interrogare Sileno, il mitologico dio silvestre seguace di Dioniso. Secondo ciò che scrive Nietzsche ne “La nascita della tragedia”, egli fornisce risposte schiette ed estremamente sagge a chi lo interpella. Dovrete però procedere cautamente per essere certi di non seccarlo con i vostri quesiti, perché le sue risposte possono raggelare i cuori e terrorizzare le menti. Bene, sappiate che il famoso re Mida – più noto per aver chiesto a Dioniso di poter trasformare in oro tutto ciò che toccava ed aver rischiato la vita per questa sua sete insaziabile di ricchezza – è conosciuto anche per aver assillato con le sue domande Sileno stesso. Egli voleva conoscere che cos’era «l’“ottimo per l’uomo”». Deve averlo importunato un po’ troppo, perché – secondo quello che riferisce Aristotele nell’ “Eudemo” o “dell’Anima” – la divinità boschiva gli ha risposto così: «Voi uomini, seme effimero di un penoso destino e di una dura sorte, perché mi fate violenza e mi costringete a dire cose che per voi sarebbe meglio non sapere? Quando, infatti, si ignorano i propri mali, la vita è priva di dolore. Per gli uomini non si dà affatto la cosa migliore fra tutte né tanto meno la possibilità di partecipare alla natura dell’ottimo». Ma doveva essere proprio scocciato e ha continuato: «Per tutti gli uomini e tutte le donne, l’ottimo in assoluto è non essere nati. Dopo di che, la cosa migliore – la prima fra quelle che gli uomini possono conseguire – è, una volta nati, morire al più presto». Questa sentenza fa rabbrividire e spezza tutte le già precarie consolazioni umane. Tuttavia quest’idea era tipica della tragedia greca. Si trova con accenti diversi in Eschilo, in Sofocle e in Euripide. Nell’ “Edipo a Colono” di Sofocle, il Coro, riflettendo sulla condizione umana, afferma: «Molto meglio non essere nati. / Ma, una volta nati, / fare ritorno da dove si è venuti / è destino ancora migliore». Una visione angosciosa della vita, apparentemente negativa o più semplicemente “tragica”. Occorre dire che alcuni filosofi antichi si sono ribellati a questa conclusione. Epicuro, ad esempio, nella “Lettera a Meneceo” non sopporta affatto chi, dopo aver echeggiato l’esito della tragedia ed esserne stato sedotto, ripete agli altri uomini che sarebbe stato più conveniente «non essere nati». Si irrita, perché ritiene che chi ragiona in questo modo non prenda la vita con serietà. Scrive Epicuro: «Se ne è convinto, perché non lascia subito la vita? Ne ha sempre la possibilità, se è davvero determinato a farlo. Ma se dice tanto per dire, sono parole del tutto fuori luogo. Bisogna poi tenere a mente che il futuro ci appartiene e insieme non ci appartiene: non dobbiamo aspettarci che si realizzi immancabilmente, ma non dobbiamo nemmeno disperare che esso si compia». L’uomo contemporaneo ha conservato qualcosa della visione tragica dell’esistenza? Pensa davvero che ignorando i propri mali la vita sia priva di dolore e che evitando di guardare alla propria essenza effimera possa essere felice? Il filosofo Sossio Giametta – un autorevole traduttore delle opere di Nietzsche in lingua italiana – nel libro “Grandi problemi risolti in piccoli spazi” ritiene che gli uomini abbiano ribaltato l’antica sentenza tragica. Scrive infatti: «Quindi, contrariamente a quello che dice “il saggio Sileno” al re Mida: “Il meglio è per te [...] non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto”, la cosa migliore per noi è esistere sempre, come Dio, e la cosa in secondo luogo migliore è esistere a lungo». Chissà se Sileno – che conosceva certamente le aspirazioni degli uomini – avrebbe potuto prevedere la loro irriducibile ostinazione a voler assomigliare agli dei.

Un caro saluto,

Alberto




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