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Cor-rispondenze

lunedì 23 dicembre 2013

Gratta e vinci



Caro Professore,
Pochi giorni fa, entrando in un bar-tabaccheria per mangiare un boccone prima di recarmi in stazione, ho assistito ad una scena che mi ha sconcertata. Mentre aspettavo il mio sandwich, ho scorto una donna di una certa età appoggiata ad un tavolino davanti al mio, intenta a grattare via lo strato argenteo sui tre gratta e vinci che si era appena comprata. Conosco molte persone che di tanto in tanto ne comprano, perciò subito non ho prestato molta attenzione alla scena. Dopo qualche secondo però, la signora, borbottando fra sé e sé, ne ha chiesti al tabaccaio altri tre da dieci euro. Arrabbiata per il fatto di non essere riuscita a vincere nulla nemmeno con quei tre, la donna ne ha chiesti altri. Questa faccenda si è ripetuta per ben sei volte oltre alle due a cui avevo assistito, fino a quando la donna, dopo aver speso una non modica somma di denaro, contenta per aver vinto i suoi venti euro, se n'è andata dal negozio. In quell'istante mi è sorto un dubbio: gli uomini sono tutti inclini a tentare la fortuna? Perché le persone, anche dopo aver constatato che la decisione che hanno preso non è stata corretta, provano nuovamente a vedere se, scegliendo di nuovo quella stessa strada, la fortuna gli sorriderà?
Alessandra, 4E

Cara Alessandra,
Alcune persone che si muovono attorno a noi rivelano anomalie: vocabolari che insistono sulle stesse parole, ideazione contratta, gestualità frenetica, sguardi assenti. Nella nostra epoca si è insinuata nelle menti una sorta di disperazione inconscia per cui si ritiene che la fortuna accada per una combinazione casuale di cui non siamo mai gli attori. Semplici gesti lasciano trasparire che inconsapevolmente è svanito il nesso tra fortuna e virtù. Così si “tenta la fortuna”, si attende che la “fortuna sorrida”, si aumenta il gioco ignari che si diventa strumenti di un meccanismo di cui non si è protagonisti e non ci si rende conto che spesso la posta in gioco non è il denaro, ma la vita. Non so più se il “gratta e vinci”, come le slot-machines siano ancora divertimenti. È davvero un gioco quello in cui la vincita non è mai il risultato di una competenza o di un’abilità? Il divertimento in fondo è un “di-vertere” – cambiare strada – alternare fatica e alleggerimento. Qui il gioco non produce sorrisi, ma solo gesti ripetitivi e assenti. Non c’è confronto, non c’è relazione, quindi lo s-vago, invece di generare sollievo e distensione, è un vagare di sé che, come hai notato, produce tensione e irrequietezza. La semplicità del gioco non implica partecipazione attiva del soggetto, in fondo non c’è possibilità di influenzare una schedina programmata. Credo che questa attività compulsiva sia legata ad un problema dell’uomo con il tempo. Eugéne Minkowski (1885-1972) diceva che il malato psichico vive in modo diverso lo spazio e il tempo. L’uomo è infatti un essere che si forma nel tempo: non è istantaneità, ma durata. Il venir meno della dimensione temporale fa collassare i progetti, riduce l’apprezzamento delle cose, perché tra desiderio e la realizzazione c’è bisogno di tempo. Il tempo che scorre lentamente è quello in cui si vivono i sentimenti, si apprezzano i piccoli gesti, i dettagli; si beneficia infatti di un risultato dopo un’attesa o dopo una fatica. Si gioisce per un traguardo raggiunto, quindi perseguito nel tempo. È la dimensione temporale che restituisce felicità al vissuto. Gli uomini si ribellano quando non possono disporre di tempo a sufficienza per fare un lavoro, per meditare, per relazionarsi. Avvertono l’imposizione dei ritmi altrui come un’invasione al proprio modo di vivere. Si lotta infatti per avere momenti liberi per occuparsi di sé, per non sottostare alla cadenza frenetica del lavoro e del consumo. Quando siamo affaticati sentiamo dunque bisogno di riposo (quindi di tempo) e di rilassarci (perché cerchiamo di ristabilire il nostro passo). Ma nel gioco compulsivo che fine fa il tempo che dà senso alla nostra esperienza? Eliminata la distanza tra inizio del gioco e attesa di una possibile vincita non c’è tempo per gioire, per meditare la sconfitta né per elaborare altre strategie. La donna che hai osservato non avverte il bisogno di sottrarsi alla costosa ripetizione, perché è nel tempo che maturerebbe questa consapevolezza, in quanto nel tempo si forma questa coscienza. Se il tempo è la dimensione dell'esistenza, quando l’uomo o la donna diventano esseri senza tempo perdono la qualità della vita.
Un caro saluto,
Alberto

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