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Cor-rispondenze

lunedì 16 dicembre 2013

Ricercarsi...



Caro professore,
sono sempre stata una persona emotiva, che ha sempre compreso la vita solo poeticamente, artisticamente, una persona per la quale i sentimenti sono sempre stati più forti di qualsiasi ragione. Sono così assetata di meraviglia che solo lo straordinario potere che essa ha su di me mi disarma. Tutto ciò che non riesco a trasformare in qualcosa di straordinario lo lascio andare. La realtà non mi impressiona, credo solamente nell'ebbrezza, nell'estasi, e quando la vita ordinaria mi vincola fuggo, in un modo o nell'altro. Ed è proprio per questo che non mi rispecchio in "nessuno", a volte non riesco nemmeno a credere nella mia esistenza, mi ricerco nei libri, nelle frasi "fatte", nelle parole degli altri. Cartesio diceva: «cogito, ergo sum», «io penso, dunque esisto», dando per scontato che proprio per il fatto che pensiamo, esistiamo. Come ne posso avere la certezza? Come posso sapere se quello che sto facendo è "vivere", "esistere" e non sopravvivere e basta? Grazie.
T., 4D

Cara T.,
La meraviglia appartiene ad ogni uomo, ma è anche il principio della filosofia. Platone segnala questa origine quando, nel “Teeteto”, fa dire a Socrate queste parole: «Ed è proprio del filosofo questo che tu provi, di essere pieno di meraviglia; né altro cominciamento ha il filosofare che questo» (“Teeteto”, 55 d). E anche Aristotele concorda: «Infatti gli uomini hanno iniziato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia. (“Metafisica”, I, 2, 982b, 12). La meraviglia per l’esistenza percorre tutta la ricerca umana. È nota la frase di Kant – contenuta nelle ultime righe della “Critica della ragion pratica, 1788” – scolpita sulla sua tomba a Kaliningrad, in Russia: «Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto piú spesso e piú a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me». Il filosofo contemporaneo Ermanno Bencivenga ricorda tuttavia che «quando la meraviglia si estingue, quelle che abbiamo davanti sono solo le spoglie della filosofia». Potremmo dire che – eliminando la meraviglia – si presentano a noi le spoglie della vita, perché l’esistenza diventa gravosa routine. Per questo il filosofo invita a mantenere vivo questo sentimento e suggerisce di «praticare giornalmente» il rinnovamento del linguaggio, per evitare che l’avventura straordinaria del pensiero si trasformi in un rito, in una stantia riproduzione di formule più che in uno stimolo creativo ad osservare e a meditare. La meraviglia va dunque coltivata, è una disposizione dell’animo che richiede dedizione. Come dici tu, non è sufficiente avere cognizione di esistere o avere la certezza che il pensiero sia vitale, ma abbiamo bisogno di sapere chi siamo. Non ci accontentiamo di essere una “cosa pensante”, vogliamo comprendere se la nostra identità è data una volta per tutte o è in continua formazione. Sentiamo il bisogno di condividere attraverso i libri intuizioni e aforismi degli autori per due motivi: non solo perché si adattano alla nostra natura, ma perché rappresentano ciò che vogliamo essere. Poiché l’identità passa attraverso l’identificazione, immedesimandoci nei pensieri degli altri componiamo un puzzle di idee e creiamo piano piano la vita che vorremmo vivere e la persona che vorremmo essere. La lettura delle grandi opere offre informazioni su di noi: dalla letteratura impariamo le emozioni, dalla storia la loro dimensione culturale e sociale, dalla filosofia acquisiamo idee e argomentazioni, dalla poesia intuizioni sulla vita, e da ogni forma di arte manifestazioni diverse della bellezza e possibili scenari di vita. Vogliamo tenere insieme le parti più belle, come se apparecchiassimo la vita stessa di cose buone: impariamo a conoscere il mondo, decifrando come il mondo è stato compreso, afferriamo le sfaccettature dei sentimenti, se seguiamo la loro evoluzione nelle storie che leggiamo, e scopriamo le ambivalenze della vita ascoltando la complessità delle narrazioni. Impariamo di noi, dunque, guardando gli altri. La meraviglia ci spinge a cercare e a rinnovare ciò che siamo. Certo c’è differenza tra “vivere” ed “esistere”, ma si può ricondurre lo stupore anche nell’ordinario. Invece di fuggire la vita regolare, è possibile renderla sublime. Poiché lo stupore si genera dall’attenzione, quando l’attenzione si posa sui particolari dell’esistenza, restituisce al quotidiano sorpresa, incanto e novità. Per avere la certezza di “vivere” occorre dunque coltivare la meraviglia.
Un caro saluto,
Alberto

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