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Cor-rispondenze

lunedì 9 dicembre 2013

La morte ingiusta




Caro professore,
sto vivendo un momento molto difficile da superare. Questo mi porta a chiedere perché muore la gente migliore e non chi causa problemi, proprio come nella mia situazione. Questa domanda l’ho posta a mia madre e lei mi ha risposto dicendo: «Quando tu vai in un giardino, raccogli i bei fiori o quelli brutti?». Questa risposta mi ha lasciata molto perplessa, mi ha creato ancora più dubbi. Cerco una risposta giusta che riesca a chiarirmi le idee. Sicuramente, se non mi trovassi in questa situazione piena di dolore e con una persona che non ha mai fatto del bene, forse non mi porrei questa domanda, alla quale nessuno riesce a darmi una risposta valida. In conclusione le vorrei chiedere se lei sa darmi qualche indicazione o qualche sua opinione, visto che è da anni che vivo con questo dubbio e molto rancore.
Michela, 1A

Cara Michela,
Alcune persone escono di scena quando avrebbero molto da offrire, grazie alle loro esperienze e alla sensibilità affinata negli anni e nelle relazioni. E così si origina in noi l’idea che siano «i migliori che se ne vanno», una locuzione che – invece di essere un luogo comune – segnala invece l’amarezza derivante dalla morte improvvisa. Ci lasciano sempre troppo presto coloro che amiamo, i nostri punti di riferimento e i nostri modelli. Nella canzone “Terra degli uomini” il cantante Jovanotti scrive: «Son sempre i migliori che partono / ci lasciano senza istruzioni / a riprogrammare i semafori / in cerca di sante ragioni». Purtroppo, quando le persone care muoiono, rimaniamo veramente «senza istruzioni» e «in cerca di sante ragioni». Il patimento genera rancore e fa affiorare alla mente l’idea che la vita sia governata da una irrazionalità di fondo e la convinzione di vivere un’ingiustizia suscita la protesta nei confronti della natura che genera e cancella infinite vite umane, uniche, bellissime o eccezionali, oppure – come in Giobbe – fa rivolgere la propria disapprovazione direttamente a Dio. Pensare che ci sia qualcuno che «raccoglie i fiori belli ed è indifferente a quelli brutti», non attenua il dolore, perché banalizza il male, svaluta l’esistenza, riduce la vita ad un capriccio e rende incomprensibile la sua assenza. Gli antichi sapevano che la vita è ingiusta e piangevano gli eroi giovani morti in battaglia. In “Itaca per sempre” lo scrittore Luigi Melerba (1927-2008) fa dire ad Ulisse queste parole: «I veri eroi muoiono giovani, o combattendo o per mano di traditori che invidiano la loro virtù.». Sappiamo che quando alcune persone significative ci lasciano prematuramente, la loro assenza annienta provvisoriamente i propositi, riduce la voglia di vivere, svuota di significato i progetti che sostenevano le nostre fatiche. Tuttavia Malerba affida a Ulisse questa riflessione: «Io sono vivo e devo pensare alla mia vita con Penelope, a riguadagnare oltre al suo amore anche la sua fiducia, a mettere il mio animo a riposo e godere i frutti della mia lunga fatica». Ecco, credo che quando si perde un legame fondamentale sia importante riguadagnare il valore delle relazioni con le persone che esistono ancora. Apparteniamo in fondo a due grandi tradizioni: quella greca e quella cristiana. Per i Greci la vita è tragica, non perché è piena di insidie, ma perché il male non viene riscattato. Fa parte dell’esistenza ed è senza rimedio. Scriveva George Steiner: «dove c'è ricompensa, c'è giustizia, non tragedia»; i cristiani credono invece che per quanto incomprensibili siano le concatenazioni degli eventi, alla fine ci sarà una giustizia. Non si possono dare dimostrazioni di questa giustizia, e qualche filosofo ha detto che essa è un bisogno morale dell’uomo. Ognuno si orienta dentro una tradizione. E il dolore, a volte, aiuta a crescere. Scrive ancora Luigi Malerba: «Se uno ha combattuto un solo giorno può raccontare mille storie di guerra. Se uno ha amato anche una sola donna può raccontare mille storie d’amore. Ma chi non è vissuto con amore e con dolore non può inventare nulla se non parole vuote e aride come la cenere». Il dolore fa parte della vita, insieme all’amore. E – quando non è insostenibile – rende la vita più vera. Senza queste due componenti le nostre parole plasmerebbero solo chiacchiericcio, suoni distanti dalla vita.
Un caro saluto,
Alberto

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