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Cor-rispondenze

lunedì 13 luglio 2009

I nostri "Motti brevi"


Ora che l'anno è finito e un bel percorso si è concluso, volevo salutarvi ricordando come, tre anni fa, era iniziato. Un caro saluto a tutti, Alberto... Buone vacanze!


1. Guarda le cose che riescono a fare gli altri non per sfidarli o superarli, ma per sfidare e superare te stesso.

Spesso può capitare che ci sentiamo insoddisfatti per ciò che facciamo o ci pare che le nostre azioni siano inferiori a quelle di chi ci sta intorno. Anche se magari non è così, bisogna trovare un modo per stare bene con noi stessi e, secondo me, la cosa migliore è, in un certo senso, imparare dalle altre persone. Quando vediamo che qualcuno fa qualcosa che ci piace o ci colpisce, il metodo migliore non è essere invidiosi, ma pensare: "Ehi, ma forse potrei farlo anche io”. Questo, se non si esagera, non è da intendersi come copiare gli altri, infatti, secondo me, bisogna anche un po’ approfittare di avere così tante persone intorno con cui scoprire sempre cose nuove e da cui, nel bene e nel male, qualcosa da imparare c’è. In fondo le persone si dice siano fatte di relazioni, e una relazione deve far sì che a entrambe le persone rimanga qualcosa dell’altro, in questo modo ciò che vediamo negli altri diventa uno stimolo per migliorare noi stessi. Stefania Faggio

2. Non passare la vita a non pensare.
Matteo Cravero

3. L’orgoglio danneggia l’uomo

Ho scelto questa frase perché in base a esperienze personali ho scoperto che troppo orgoglio non ti fa condurre una vita felice e ti porta a rapportarti con gli altri, ma soprattutto con te stesso, in modo più che negativo. Chiara Marengo

4. Ogni uomo nel suo piccolo condiziona la storia

Secondo me siamo tutti importantissimi per scrivere la storia del mondo perché se non ci fossimo noi le cose non sarebbero andate così. Noi condizioniamo alcune persone che a loro volte ne condizionano altre e via così… Chiara Marengo

5. Ci sono solo tre modi di fare le cose: falle da solo, falle subito, continua a farle

Per la prima affermazione: non ti appoggiare troppo alle persone. L’amicizia finisce quando iniziano i propri interessi. In sostanza: ognuno persegue il proprio obbiettivo (fidarsi è bene, non fidarsi è meglio). Per le altre due affermazioni si può rispondere semplicemente così: segui l’istinto! E’ vero, ciò comporta grandi rischi, ma anche enormi emozioni. Daniele Di Palma

6. La vita è come una giostra; ci sono occasioni che, se prendi al volo, ti permettono di fare un giro gratis.

Come ci si sente quando si “acchiappa” il pupazzetto su una giostra? Certo ci siamo sforzati tanto per prenderlo, ma ora siamo i vincitori, gli unici che non pagheranno il prossimo giro e se lo godranno sicuramente di più! Nella vita bisogna faticare moltissimo per ottenere dei risultati e quindi delle buone occasioni ma, una volta ottenuti, danno soddisfazioni e privilegi incomparabili. Carlotta Ponzo

7. Tu sei il migliore, e i rimpianti sono per i perdenti.

Questa è la frase che uso di solito quando devo tirarmi un po’ su di morale; dopotutto dobbiamo volerci bene e convincerci che ognuno di noi può essere il migliore, e mettercela tutta. Dopotutto, chi può decidere chi sia il migliore? Parlando dei rimpianti, posso solo dire di averci ragionato e aver tratto la conclusione che i rimpianti non esistono. E’ inutile pensare e ripensare a occasioni mancate o sbagli, perché tanto indietro non si torna. Possiamo ragionarci un giorno, un mese, un decennio; ma il risultato non cambia, e avremo sprecato un sacco di tempo. Anzi dobbiamo renderci conto che è grazie (o per colpa) a quegli sbagli se siamo qui ora! Forse è destino o forse sono coincidenze; fatto sta che sono felice di essere qui e che i miei sbagli non sono stati altro che piastrelle sul mio sentiero. Carlotta Ponzo

8. La vita è come un viaggio in treno: puoi anche non fare il biglietto, ma tanto prima o poi ti beccano.

Questa frase è anche riassumibile in un “ ogni volta che fai qualcosa di sbagliato, e sei consapevole che lo stai facendo, devi mettere in conto che presto o tardi verrai scoperto”. Marta Maimone

9. Sogna ad occhi aperti.


Trovo che sia bello passare del tempo a fantasticare, a pensare, a farsi domande e cercare di darsi delle risposte, insomma a sognare ad occhi aperti... Alice Fissore

10. Segui ciò che ti dice la mente, non il cuore

Questo non vuol dire che devi escludere tutti i sentimenti, come amore, amicizia, fiducia, ecc. Secondo me è giusto ascoltare ciò che dice il cuore, ma spesso a prendere decisioni volute dal cuore si sbaglia, anche se subito ci si sente felici. Secondo me, bisogna sempre soffermarsi a pensare prima di dire sì o no. Quindi non intendo dire che bisogna essere sempre freddi e distaccati, ma bisogna fermarsi e riflettere se si devono prendere decisioni importanti. Jessica Tibaldi

11. Non ti limitare

Non ti limitare non è da confondersi con non avere limiti. I limiti e il giudizio sono indispensabili nella vita, soprattutto superata una certa età. Va bene vivere la vita e provare tutto e di più, sono d’accordo, ma sempre con un po’ di cognizione. Non ti limitare vuol dire non accontentarsi, volere sempre la scelta migliore per sé e per quello che si vuole raggiungere, anche se non è compresa nelle opzioni. Per me è l’unico modo per non farsi condizionare da ciò che viene imposto dalla società e dalla religione. Martina Pastore

12. C'è della stupidità e dell'intelligenza in ogni uomo; a ciascuno tocca scegliere cosa far emergere.

Ho scritto questo perché credo che non bisogna sempre essere razionali e neanche vivere senza pensare, ma ci vuole una via di mezzo per essere felici. Mauro Federico

13. Scegli e non pentirtene

Ognuno di noi ha la necessità e il dovere di dare un senso alla propria vita, con le sue idee e le sue decisioni.Giorno dopo giorno si crea il suo cammino, scegliendo ciò che si ritiene più giusto. Non bisogna aver paura di decidere, e tanto meno pentirsene perché ogni scelta, anche se sbagliata è un tentativo per dare un senso e uno scopo alla nostra vita. Francesca Barbero

14. Sogna come se vivessi per sempre, vivi come se morissi oggi. Valeria Mosca


15. La vita è come un fiore, vivila prima che cadano tutti i petali. Valeria Mosca

16. Vivere e’ essere e rendere felici

La maggior parte degli uomini (per non dire tutti) ricerca per tutta la vita la felicità, rincorrendo qualsiasi piccolo o grande piacere che lo illuda di potergli donare la serenità interiore, una condizione di equilibrio, le condizioni che gli consentano di credere di essere felice. In questa frenetica corsa verso la pace interiore spesso ci si dimentica che noi, esseri complessi e non avvezzi alla solitudine, abbiamo bisogno, per essere felici, che anche le persone intorno a noi lo siano. Spesso infatti le soddisfazioni più grandi, le gioie maggiori sono proprio gli altri individui a donarcele, come un sorriso o una parola di conforto, un ringraziamento o un favore quando ne abbiamo bisogno. Eppure noi siamo sempre troppo presi da noi stessi e dai nostri desideri che non ci rendiamo conto di quanto gli altri quotidianamente possano fare per noi, quanto essi possano farci stare bene. Per questo è importante essere felici e rendere felici gli altri, poiché l’uomo è un animale “da compagnia”, che ha continuamente bisogno di confrontarsi o scontrarsi con i suoi simili: deve quindi, oltre che pensare a se stesso, dedicare del tempo alle persone che ama, quelle per cui prova un sentimento, anche se non troppo forte. Questo aiuta a non perdere gli uomini che ci circondano e a fare sì che questi siano sempre pronti ad aiutarci o a sostenerci, regalandoci delle felicità che sono tra le più belle, poiché spontanee e spesso inaspettate. Cristina Mobiglia

17. Non essere triste per la felicità degli altri!

Con questa frase intendo dire che se all'interno di un gruppo ci sono persone felici, e magari tu quel giorno non lo sei , non ti devi rattristare perché loro lo sono;pensa che magari stanno solo fingendo e non invidiarle perché magari loro invidiano la tua spontaneità nel mostrare i tuoi sentimenti!!


18. Non aver paura del domani

Se spendi la giornata ad aver paura del domani non puoi vivere il presente in maniera completa, perciò pensa ad oggi che a domani manca un giorno!

19. L'amore per sempre!

Intendo dire che l'amore deve durare per sempre, non l'amore per un uomo ma l'amore inteso come gioia, l'amore nel vedere un tramonto, l'amore nel cogliere un fiore, sentire l'amore anche nelle piccole cose!

20. “Sorridi se vuoi che il mondo ti sorrida”.

Secondo me nella vita bisogna trovare il lato positivo delle cose per vivere meglio, con più serenità…e sicuramente il primo passo è sorridere….
Non sempre si possono evitare eventi spiacevoli e sofferenze, perché fanno parte della vita, ma sorridere è il giusto modo per superarle con più facilità.
Bisogna sempre trovare la forza di reagire con un semplice sorriso. Se tanto le cose non cambiano in ogni caso, è meglio sorridere piuttosto che buttarsi giù ed essere tristi. Cecilia Sartirano

La memoria e l'oblio


Caro professore,

Ho trovato ieri pomeriggio una scatola da scarpe, molto vecchia. Aprendola ho trovato dentro un sacco di cose: giocattoli, una foto e perfino un libro per bambini. Era la scatola dei ricordi che io e la mia migliore amica avevamo fatto dieci anni fa (più o meno), il giorno prima che si trasferisse. Mi ero dimenticata di quella scatola, e rivedendo quei pezzetti di passato mi sono messa come al solito a pensare e ripensare, e mi sono chiesta se è giusto dimenticare così una cosa che è stata importante per noi, e se allo stesso modo sia giusto aggrapparsi quasi morbosamente ai ricordi. Per esempio, perché si tiene un diario? Io penso che non si voglia dimenticare veramente, mai nulla, perché tutti i fatti accidentali, le cose brutte come quelle belle ci hanno in qualche modo plasmato, cambiato: ed è giusto dimenticare? La mente umana è costruita come un setaccio, le cose che riescono a infilarsi tra le maglie e a passare cadono nell'oblio, che può essere temporaneo o eterno, ma è dimenticanza vera, spontanea. È giusto aggrapparsi a qualcosa che per natura sarebbe destinato a passare? È bello sapere di avere un passato, ma a volte non sarebbe meglio dimenticare e basta?

Teresa


Cara Teresa,
L’uomo, scrive Nietzsche nella seconda Considerazione inattuale [1874], “si meravigliò anche di se stesso, per il fatto di non poter imparare a dimenticare e di essere continuamente legato al passato: per quanto lontano, per quanto rapidamente egli corra, corre con lui la catena”.
L'animale, secondo Nietzsche, vive in modo non storico, perché la sua vita si risolve nel presente, l'uomo invece vive sotto il peso del passato che talvolta lo schiaccia, lo appesantisce e gli impedisce di vivere. Il filosofo parla del passato come di un fardello che l'uomo porta sulle spalle: se l'uomo non riesce a dimenticare, dunque, non riesce a vivere. Nietzsche è convinto che un eccesso di storia impedisca all'uomo di vivere, e fino a quando l'uomo non riesce a liberarsi da certi legami vive come estraneo la propria vita. L’uomo, secondo Nietzsche, quasi invidia l’animale che riesce a dimenticare: “Continuamente un foglio si stacca dal rotolo del tempo, cade, vola via - e rivola improvvisamente indietro, in grembo all'uomo. Allora l'uomo dice « mi ricordo » e invidia l'animale che subito dimentica e che vede veramente morire, sprofondare nella nebbia e nella notte, spegnersi per sempre ogni istante”. Poiché l'uomo ha il dovere di seguire la propria strada, di disegnare autonomamente il proprio percorso, è quindi giusto scordare il passato, anche se cessare di ricordare vuol dire abbandonare qualcosa che è stato importante, e ognuno di noi fatica a separarsi dai propri ricordi, dalla propria storia individuale. A volte dimenticare non ci sembra giusto; perdere la memoria di ciò che un tempo è stato significativo ci sembra irragionevole e immorale. Ma, dice il filosofo: “Ci vuole molta forza per poter vivere e per dimenticare, in quanto vivere ed essere ingiusti sono una cosa sola”. Vivere ed essere ingiusti sono una cosa sola, perché per poter agire occorre lasciare fluire, anche temporaneamente, ciò che è accaduto perché la vita stessa ha bisogno di oblio. Noi siamo il risultato delle generazioni precedenti, delle loro passioni e dei loro errori, e certamente non possiamo liberarci completamente dalla catena del passato, perché ci siamo formati proprio grazie ad esso e, anche se non ne siamo consapevoli, il passato dà ancora linfa alla nostra vita. Ma per vivere occorre creatività, forza, incoscienza, e ognuno di noi avverte la necessità di lasciare spazio anche alle cose che devono venire; Nietzsche scrive infatti che c’è anche: “un diritto delle cose che devono venire”, ossia un'apertura del futuro che non dobbiamo impedire. A volte, come dici tu, percepiamo la dimenticanza come un dispiacere, come un danno, come una perdita di noi stessi e della nostra memoria, però se rimaniamo troppo legati al passato non riusciamo a crescere. “Chi non sa mettersi a sedere sulla soglia dell'attimo – scrive Nietzsche -, dimenticando tutte le cose passate, chi non è capace di star ritto su un punto senza vertigini e paura come una dea della vittoria, non saprà mai che cosa sia la felicità, e ancor peggio, non farà mai alcunché che renda felici gli altri”.
Se “per ogni agire ci vuole oblio”, c’è anche chi ha fatto della memoria un’esigenza irrinunciabile. Elie Wiesel (1928), il grande scrittore rumeno ebraico sopravvissuto all’Olocausto e premio Nobel per la pace, all’inizio del libro “L’oblio” [Garzanti, 2007] ha inserito la preghiera dí Elhanan, un padre anziano che ripete a Dio “fonte di ogni memoria”, che “dimenticare è abbandonare, dimenticare è ripudiare”. Egli chiede a Dio di non dimenticare i suoi figli, ma anche di non dimenticare ciò che è accaduto al suo popolo. La preghiera è molto bella: te ne ripropongo una piccola parte: “Dio di Auschwitz, comprendi che devo ricordarmi di Auschwitz. E che devo ricordarTelo. Dio di Treblinka, fa' che l'evocazione di questo nome continui a farmi tremare. Dio di Belzec, lascia ch'io pianga sulle vittime di Belzec. Tu che condividi la nostra sofferenza, Tu che partecipi alla nostra attesa, non mi allontanare da coloro che Ti hanno invitato nel loro cuore e nella loro dimora. Tu che prevedi l'avvenire degli uomini, aiutami a non staccarmi dal mio passato”. […] “Sappi, Dio, che non voglio dímenticarTi Non voglio dimenticare nulla. Né i morti né i vivi. Né le voci né i silenzi. Non voglio dimenticare i momenti di plenitudine che hanno arricchito la mia esistenza, né le ore di miseria che mi hanno gettato nella disperazione. Anche se Tu mi dimentichi, Dio, io rifiuto di dimenticarTi”.
Tutti dimenticano e tutti saranno dimenticati, ma il popolo ebraico non può dimenticare il proprio Dio e dunque il senso della propria appartenenza, né i milioni di morti dei campi di sterminio. In questo caso dimenticare è tradire o non essere neppure degni di essere uomini. Malkiel Rosenbaum, il protagonista del libro, ha quarant’anni ed è nato nel 1948 a Gerusalemme (ho l’età dello Stato di Israele, dice). Egli afferma che solo la memoria ha davvero importanza: “È solo la memoria che conta. La mia qualche volta trabocca. È perché pesa più dei miei ricordi personali. Avvolge e protegge anche quella di mio padre. La memoria di mio padre è un colabrodo. No, non un colabrodo. Una foglia d'autunno. Avvizzita. Bucherellata. No, piuttosto un fantasma. Non la vedo che a mezzanotte. Lo so: non si può vedere una memoria. Io posso. Io la vedo come l'ombra di un'ombra che si ritira continuamente, che si ripiega su se stessa. Ho fatto appena in tempo a scorgerla che si perde in un baratro. Poi la sento gridare, la sento gemere sommessamente. Non c'è più, ma la vedo come vedo me stesso. Mi chiama: Malkiel, Malkiel. Io rispondo: Non aver paura, non ti lascio. Un giorno, non chiamerà più”.


Malkiel diventa il depositario della memoria del padre e del suo popolo, anche quando il padre non sarà più in grado di ricordare quasi nulla, quando avrà dimenticato quasi tutti i nomi dei suoi compagni morti e le terribili sofferenze degli anni della guerra. Malkiel ha dunque una responsabilità: non ha solo i propri ricordi, ma ha una memoria più grande da riprendere, da accogliere e da far rivivere.
C’è una parte che amo molto in questo libro: l’ebreo Malkiel si innamora di una tedesca. Ad un certo punto i due sono a Berlino, Malkiel ripensa a suo padre e diventa malinconico. Lei se ne accorge e gli dice: “È perché non voglio dimenticare nulla che ti amo; ed è perché tu devi ricordarti di tutto che non puoi amarmi”. Senza oblio la vita sarebbe impossibile; solo l’amore può, contenendo la memoria, vincere l’oblio e consentire di continuare a vivere.
Ti riporto il passo che trovo bellissimo:
Così scrive Wiesel: “I due amanti colmarono l'abisso che separava l'ebreo dal tedesco, la promessa dalla minaccia, la felicità dalla sofferenza. Insieme sfidavano il destino conferendogli un volto innocente, il volto sorridente della riconciliazione, se non addirittura del perdono. Mano nella mano, giravano per le strade illuminate e animate dell'ex capitale del Terzo Reich, si fermavano davanti alle vetrine eleganti, visitavano i musei, i giardini pubblici, le biblioteche, ammiravano i quartieri ricostruiti, applaudivano agli spettacoli e ai concerti, ridevano con gli scolari in cui si imbattevano la mattina presto o nel tardo pomeriggio. Era talmente semplice attirare la felicità; bastava prescindere dal passato, voltar pagina. Per essere contento, Malkiel doveva soltanto non pensare a suo padre. Ma... ci pensava. Ancor più di prima. L'uomo che gli cambiava il denaro in banca, dov'era durante la guerra? E il funzionario che gli spiegava la politica urbana di Berlino, che età aveva nel 1943? Era abbastanza vecchio per aver potuto servire nelle unità speciali delle ss? E Inge... aveva dei genitori? Chi erano? Lentamente, gradatamente, Malkiel senti che la sua felicità si sgretolava. Inge finì con l'accorgersi del cambiamento. Volle vederci chiaro. Si tratta di mio padre, confessò Malkiel. Mio padre mi impedisce di dimenticare. E, paradossalmente, lei diede ragione a Elhanan: Lo so, disse a Malkiel, non bisogna dimenticare nulla. È perché non voglio dimenticare nulla che ti amo; ed è perché tu devi ricordarti dí tutto che non puoi amarmi. Intelligente, Inge. Onesta, esigente. È perché io penso a tuo padre, disse lei a Malkiel, e al suo, e a tutti i padri ebrei che i nostri padri hanno assassinato che ti amo, che ti amo d'un amore che non può che essere sterile e senza futuro. Confuso, sollecitato da troppi richiami diversi, Malkiel piombò nella malinconia”.


Un caro saluto,

Alberto

giovedì 18 giugno 2009

La notte e i sogni


Caro professore,

Ho paura della notte: vivo di giorno e tremo nell’oscurità! Di notte, il nostro corpo non riesce a controllare i sogni, e ciò mi spaventa. Ormai le immagini riflesse dal mio essere mi incutono malinconia e quella malinconia mi assale durante tutta la giornata. Non mi sono mai sentita così persa ed impotente. Ho paura.
Laura

Cara Laura,
Quando andiamo a dormire ci avventuriamo in un mondo incerto che ci sorprende e talvolta ci inquieta se si presenta nella forma dell’incubo. A volte i sogni ci spaventano e, se hanno una fattura angosciosa, è inevitabile che tu ti senta “persa ed impotente”. Gli incubi creano ansia e turbamento anche durante la veglia. Il classicista e filologo Maurizio Bettini ricorda che, anticamente, l’incubo era inteso come una presenza reale e viva e non solo come un’immagine: “Per gli antichi però l'incubo non era solo un sintomo, una affezione; era anche un demone, un dio che ti saltava sul petto. Per questo si chiama incubo: in latino incubo, incubare, vuol dire, per l'appunto, 'mettersi a sedere sopra'. Quindi l'immagine è quella di una creatura che salta sul petto del dormiente e preme, procurandogli disagio e sofferenza”. [Maurizio Bettini, Alle porte dei sogni, Sellerio, 2009].
Quando riflettiamo sui sogni nascono in noi molte domande, ad es.: “Cosa si nasconde dietro le immagini che compaiono di notte? Che cosa suggeriscono i sogni e quali enigmi si nascondono nelle scene notturne? E perché i sogni lasciano in noi preoccupazioni che, come dici tu, si ripresentano durante la giornata fino a condizionare le nostre emozioni, e le percezioni avute nel sogno sembrano vere come quelle della veglia?"
Sono domande importanti che non hanno ottenuto finora una risposta univoca, ma molte interpretazioni.
La notte a volte fa paura perché ci rendiamo conto di non riuscire a controllare ciò che avviene in noi. Persino le parole che utilizziamo per descrivere ciò che avviene sono inadeguate: infatti diciamo “ho sognato” questo o quell’altro, come se fossimo noi a creare coscientemente il materiale dei sogni. In realtà (ed è questo che inquieta), noi non decidiamo proprio nulla: i protagonisti, la trama e l'esito del sogno non sono definiti da noi. L'espressione “io sogno”, dunque, è sbagliata: quando una persona va a dormire non è il suo io a sognare, ma avviene qualche cosa dentro la psiche, a insaputa del soggetto, che si manifesta nel palcoscenico buio della mente. L’io è sostanzialmente passivo, osserva e apprende, ma non decide nulla.
Nessuno sa dunque bene come nascano i suoi sogni. Andiamo a dormire chiedendoci: chissà che cosa ci attende questa notte, quali sogni si impadroniranno di noi. D'altra parte non è possibile decidere cosa sognare. La notte sfugge completamente al nostro controllo. È il suo aspetto originale e affascinante, perché ci presenta novità e sorprese; però è anche inquietante, perché sappiamo di non poter controllare ciò che si rappresenta nella scena onirica [ónar=sogno].
I popoli antichi avevano un vero e proprio culto per i sogni, alcuni popoli avevano degli interpreti che analizzavano i sogni dei re e dei personaggi illustri (in Mesopotamia c'erano gli oniromanti, una sorta di traduttori professionali dei sogni – cfr. Freud).
Per molti popoli i sogni comunicano messaggi importanti che devono essere interpretati, perché il loro significato non è immediato. Spesso si ritiene che i sogni mettano l'uomo in contatto con un'altra realtà: che portino notizie dal soprannaturale o dal mondo dei morti, oppure che rivelino qualcosa di importante per la vita. Secondo diverse culture i sogni veicolano messaggi che provengono dalla divinità e permettono dunque agli uomini di conoscere il destino individuale che li attende o quello collettivo di un certo popolo.
Per alcuni, dunque, i sogni contengono indicazioni per il futuro (il sogno di Giuseppe nella Bibbia – Giuseppe sogna sette vacche grasse a cui succedono sette vacche magre che divorano le prime: queste ultime rappresentano i sette anni carestia in Egitto che avrebbero divorato l'abbondanza accumulata negli anni precedenti); mentre altri (Freud) ritengono che rivelino qualcosa del nostro passato e dei nostri desideri; per altri ancora, i sogni non significano proprio nulla, sono forme che si creano nella psiche durante la notte, ma che non hanno significato.
Per Freud il sogno è la via principale per giungere all'inconscio ("L'interpretazione dei sogni è la via regia per la conoscenza dell'inconscio, il fondamento più sicuro della psicoanalisi e il campo in cui ogni praticante deve maturare il proprio convincimento e perseguire il proprio perfezionamento"). Pensa che anche lui stesso, da giovane, annotava i suoi sogni per poi interpretarli. Il suo libro “L’interpretazione dei sogni”, che è una analisi molto accurata delle associazioni che vengono fatte nei sogni, contiene molti sogni dell’autore. (Se leggi il primo capitolo troverai, tra l’altro, un’eccellente sintesi delle varie teorie del sogno - rivelazioni per il futuro, superstizioni, riferimenti al trascendente, materia di scarto dell'attività psichica normale). Freud è importante perché ha cercato di indagare quello che si annida dietro la coscienza, ha cercato di varcare lo sbarramento della coscienza per andare oltre; per lui i sogni non sono senza senso, ma hanno sempre un significato: sono l’appagamento di desideri che non possiamo appagare durante la veglia. Il sogno avrebbe un contenuto manifesto e un contenuto latente (cap. 4): quello manifesto è quello che ricordiamo, la scena che si rappresenta nella psiche, mentre il contenuto latente sono le associazioni di idee e di pensieri che vengono messi in gioco. Attraverso un paziente lavoro a ritroso, cercando i meccanismi di ideazione, gli stati affettivi, o i sintomi nevrotici, egli ha cercato di scoprire il linguaggio di questo nuovo mondo, che è il mondo dell'inconscio. Per Freud è un mondo molto importante perché è quello che influenza la nostra vita quotidiana. Il sogno ci abbandona quando siamo svegli, e solo un piccolo ricordo rimane al mattino e ciò che rimane sembra provenire quasi da un altro mondo. Egli pertanto ha cercato un filo che potesse collegare il sogno con le esperienze vissute, con le passioni e con i desideri delle persone.
Il linguaggio del sogno è diverso da quello della veglia. Nel sogno accadono cose particolari: ad esempio a volte nel sogno disponiamo di ricordi inaccessibili nello stato della veglia. Si parla infatti di “ipermnesia onirica”, ossia della capacità di ricordare cose che abbiamo sentito in maniera fuggevole (immagini di località, di persone lontane o di esperienze infantili). Sembra che nulla vada perduto nella psiche e che anche impressioni insignificanti lascino comunque una traccia che è capace di riapparire nel sogno. Se la caratteristica della vita vigile è quella di procedere per concetti, i sogni invece pensano per immagini (prevalentemente visive).
Nel sogno non viene applicata la legge di causalità: si parte infatti da un effetto per creare una causa (la caduta di una tapparella fa produrre l’immagine di un'esecuzione durante la rivoluzione francese); vengono a mancare il tempo lo spazio (le combinazioni tra le immagini o le sequenze sono fantastiche e si collegano con percezioni esterne); non vale il principio di non-contraddizione (nei sogni facciamo cose contraddittorie); il sogno è incoerente, perché riunisce varie contraddizioni e ammette cose impossibili (si mettono insieme persone e cose che non hanno il minimo rapporto tra di loro), ossia trascura ciò che sappiamo su determinate cose (“anarchia psichica”). Il sogno sconvolge ogni cosa come in un caleidoscopio. Valgono altre leggi di associazione, ma non quella di causa-effetto (ad es. assonanze tra parole e rappresentazioni)
Il sogno è l’appagamento di un desiderio (se una mangia acciughe, olive o altri cibi salati prima di andare dormire, la sete di cui soffre di notte lo sveglia, ma il risveglio è preceduto da un sogno di contenuto identico: di stare bevendo - Che cosa sogno un'oca? Il granoturco). Però a volte i sogni sono deformati, ossia richiedono un'interpretazione. Per Freud gli strati profondi della nostra psiche si manifestano nel sogno perché la coscienza non è così vigile e non sorveglia più rigorosamente quello che controllava durante il giorno e permette dunque che le verità rimosse possano raggiungere la superficie della coscienza (anche i sogni angosciosi rivelano appagamenti di desideri). Ma perché i sogni allora non manifestano apertamente il loro significato? Perché è necessaria un'interpretazione e il sogno non dice direttamente che cosa significa? Perché viene prodotta una deformazione, e chi la produce? Per Freud i sogni rappresentano desideri travestiti. Secondo l’autore ci sono due istanze psichiche (istanza = forza), ossia due forze: una plasma il desiderio del sogno e l'altra esercita una censura su questo desiderio, provocando una deformazione della sua espressione. Ciò che arriva alla coscienza è prodotto dalla prima forza, mentre la seconda lascia passare solo ciò che è gradito alla coscienza. I sogni penosi contengono qualcosa di spiacevole (per la seconda istanza), ma contemporaneamente soddisfano un desiderio (della prima). La prima forza produce il desiderio, mentre l'altra ha una funzione di difesa; perché a volte ci sono desideri che uno non vuole comunicare, ci sono desideri che uno non vuole confessare neppure a se stesso. Allora l'appagamento del desiderio è mascherato tanto da essere irriconoscibile, perché esiste una ripugnanza o un'intenzione di rimozione verso l'argomento del sogno o verso il desiderio che da esso deriva: quindi c'è un atto della censura. Per questo Freud dice che il sogno è “l'appagamento (mascherato) di un desiderio (represso, rimosso)”. Però se questa interpretazione non ti soddisfa puoi sempre pensare come il poeta Novalis, secondo cui: "Il sogno è una difesa contro la regolarità e la banalità della vita, una libera ricreazione della fantasia legata, in cui essa sovverte tutte le immagini del giorno e interrompe con un lieto giuoco infantile la costante serietà dell'uomo adulto; senza i sogni invecchieremmo precocemente, e così possiamo considerare il sogno, anche se non come una diretta concessione dall'alto, come un compito gradevole, come un amichevole compagno nel pellegrinaggio verso la tomba."


Un caro saluto,

Alberto

giovedì 4 giugno 2009

I gemelli


Caro professore,

Quello tra gemelli è un rapporto profondissimo, quasi indescrivibile. Con il tuo gemello instauri un rapporto ancora prima di nascere. Già nella pancia della mamma giochi, hai un contatto fisico con lui, condividi il cibo e, alla fine, quando è l'ora, insieme a lui vieni al mondo. Ma il rapporto rimane ancora stretto, con il tuo gemello fai i primi passi, con il tuo gemello parli (quando ancora nessuno ti capisce lui parla la tua stessa lingua), con il tuo gemello affronti il tuo primo giorno di asilo e poi di scuola. E poi, nell'adolescenza, almeno nella sua prima parte, lui è il tuo compagno più fedele, non esci mai da solo, hai sempre qualcuno accanto e il gemello rappresenta il tuo stesso pensiero, quando parli col tuo gemello rifletti ad alta voce con te stesso, quando abbracci il tuo gemello è come se abbracciassi te stesso; col gemello condividi il giorno del tuo compleanno, tutte le fasi della crescita, il gemello è un complice, un compagno di scherzi e di risate intrattenibili; il gemello è il tuo sostegno, il tuo cuscinetto nel mondo e allo stesso tempo anche tu lo sei per lui. La tua regola è: " toccami tutti, ma non il mio gemello ". Il gemello è quello per cui pensi: " senza di lui la mia vita non avrebbe senso, la mia esistenza non sarebbe lecita ". Poi arriva l'adolescenza, e la situazione cambia, basta un ragazzo e un rapporto nato prima della vita stessa si scioglie, o almeno si allenta. Com'è possibile che una persona esterna, che non può neppure immaginare un rapporto del genere, possa mettere in crisi o almeno allontanare due gemelli che hanno vissuto fino a quel momento dipendendo l'uno dall'altro?
Elisa

Cara Elisa,
i gemelli scoprono se stessi nello specchio dell'altra persona: d'altra parte sono uno stesso corpo a distanza. Ciò che agli altri è precluso, ossia la visione di sé nelle relazioni con il mondo, per voi è stato possibile. Vi siete immaginate l'una nell'altra, vi siete osservate e conosciute. La prima consapevolezza ad emergere è stata quella di avere un corpo comune, entrambe avete visto lo stesso corpo crescere parallelamente, mentre la soggettività per molto tempo vi è sembrata unica. Nessuna di voi può dire che cosa dell'altra abbia contribuito a costruire la propria identità, perché finora avete vissuto in simbiosi. Tutto è stato in riferimento all'altra persona: le abitudini, il carattere, le conoscenze, i punti di riferimento, l'appoggio psicologico. Mentre negli altri adolescenti l'identità deriva da un lungo processo di conferme, in voi l'identità è stata narrata nello specchio della gemella: la tua gemella ti ha consentito di osservare ciò che in te permaneva e ciò che mutava nel tempo. Fino ad ora avete avuto una soggettività comune: i confini di te stessa ti erano dati dall'altra persona e l'altra persona ti ha permesso di essere consapevole di te. Quando una della due ascoltava l'altra, ascoltava se stessa e la comprensione era quasi immediata. L'immagine dell'altra ti ha dato forza, la tua gemella è stata la tua mediazione verso il mondo, ciò che ti ha permesso di avvicinarti e di allontanarti dal prossimo, di interpretarlo. Penso che persino sentir la sua voce sia stato udire il prolungamento della tua, perché quando una della due taceva, il pensiero continuava nella voce dell'altra e il discorso, anche quando la parola era trattenuta nel silenzio, permaneva sullo stesso tono. Quando hai colto certi aspetti di tua sorella, in realtà hai scoperto aspetti di te; osservando lei hai compreso le tue caratteristiche. Nel suo volto e nel suo corpo hai sempre avuto a disposizione la tua oggettivazione. Tutto era significativo, perché raddoppiato e sottolineato dall'altra. Come una risata ha senso se è vissuta in due, se è con-divisa, così tutte le vostre esperienze sono state vissute con questa eco e dunque sono state amplificate, vissute con intensità e prolungate nel tempo. Il tempo era veramente durata: perché tutto si dilatava e si conservava a lungo nella memoria comune.
L'identità condivisa è dunque un legame fortissimo, indissolubile, però questa unità condivisa, che offre molti vantaggi (protezione verso il mondo, sostegno nei confronti delle avversità, condivisione dei momenti belli), a partire dall'adolescenza deve lasciare spazio al processo di individuazione. Il legame profondo rimane, ma bisogna andare verso la vita e ognuna di voi deve cercare la propria identità non nello specchio dell'altra, ma nelle relazioni con il mondo.
È certamente un cambiamento difficile, enorme.
L'altra, d'altra parte, è sempre stata presente; vivendo con lei non eri mai da sola, sia quando era presente sia quando era assente eri comunque certa di ritrovare dopo poco tempo la sua presenza per condividere emozioni e idee. Come dici tu, una gemella non è solo una presenza psicologica, ma è anche una presenza fisica che ti accompagna e ti sostiene: ti accompagna quando esci e pertanto ti protegge dalla solitudine.
Oltre l'unione tra due persone, però, deve emergere anche la specificità. Per lungo tempo la tua gemella è rimasta con-fusa con te. In realtà non è mai stata completamente altro da te. Ma il processo di individuazione è personale. La parola individuo ricorda proprio ciò che “non si può più dividere”, e per diventare individuo ognuno deve intraprendere la propria strada. Per quanto l'altro sia vicino, sia davanti a noi, sia sentito come unico, l'altro non sei tu, l'altro non può ostacolare il progetto della tua realizzazione che dipenderà dalla tua autodeterminazione. Ogni essere umano deve disegnare se stesso, la propria vita e può fare questo solo quando dalla relazione a due si intrecciano relazioni con altre persone. Per cui finisce l'identificazione completa con l'altra persona (un continuo te stesso), e si incontra veramente l'alterità negli altri. Gradualmente, ci si emancipa dalla fusione; gradualmente, si abbandona la protezione dell’altro (di questo soggetto allargato) e si va incontro alla vita vera. Nell’incontrare il mondo, ora che sei nell’adolescenza, l'altro ti può infondere fiducia, può sorreggere la tua fragilità, può farti sentire il suo sostegno in certi momenti, ma non può sostituirsi alle tue scelte e alla tua vita.
L’altro, come dici tu, è necessario, imprescindibile “senza di lui la mia vita non avrebbe senso, la mia esistenza non sarebbe lecita”, l’altro è infatti la nostra coscienza di esistere. Ma l’autosufficienza che hai provato nel rapporto con la tua gemella è illusoria: è ancora, come accade a Narciso, l’immagine riflessa di te stessa ad essere scambiata con l’altro. Nella tua gemella scorgi ancora il tuo riflesso.
Il legame cambia perché si trasforma, ossia assume una nuova forma. Lo specchio che rifletteva la tua immagine rischia ora di farti soffocare. Entrambe ora dovete fare la vostra vita e tracciare il vostro personale percorso. Per fare questo devi prendere, per certi aspetti, le distanze da tua sorella, per poter realizzare la tua vita, per evitare che l’eccessiva fusione con lei ti appiattisca su di lei. Occorre ora che ognuna di voi segua la propria indole e la propria volontà, perché senza differenziazione non c'è vita autentica. Se la tua gemella fino ad ora è stata il perimetro del tuo mondo, un privilegio che ti ha permesso di navigare nella sua identità come se fosse la tua, adesso entrambe dovete uscire da questo specchio, dalla proiezione di voi stesse nell'altra che vi ha aiutato a rafforzarvi. Per fare questo, il legame originale deve allentare la sua presa, perché là dove c'è un tutto non è possibile alcuna crescita. Allora è necessario che quel cordone ombelicale che vi tiene in vita prenda una nuova forma. I tempi della vita sono diversi: gli incontri importanti, gli affetti, gli obiettivi da raggiungere. Ovviamente, ognuna avrà i suoi tempi: non ci si fidanza contemporaneamente, non si incontrano nello stesso tempo persone significative. Ora ognuna di voi guarderà l’altra e imparerà anche ad attendere il proprio turno, il proprio momento. Il legame, dopo qualche periodo di incertezza, si farà ancora più profondo, perché dopo l’unità (passiva) della fusione originaria, conquisterete una nuova unità (attiva) nella diversità.


Un caro saluto,

Alberto

domenica 31 maggio 2009

L'angoscia della scelta


Caro professore,


Kierkegaard parla della sensazione paralizzante delle possibilità umane... tutto è determinato dalle nostre scelte, e proprio ora ci ritroviamo davanti alla più paralizzante di tutte le decisioni: che fare della nostra vita? Qual è la scelta giusta? Fare l'università che davvero mi interessa correndo il rischio di non trovare lavoro o scegliere il nostro futuro in vista dei posti lavorativi disponibili?
Vale a dire, una scelta basata sulla passione o sulla sicurezza?
Tenendo conto che spesso ci si ritiene senza interessi, non si riesce a capire cosa davvero ci appassioni, cosa potrebbe appassionarci per tutta la vita. Inoltre Nietzsche ci sprona a fare della nostra vita ciò che realmente vogliamo, ma io trovo troppo difficile deludere le aspettative che la famiglia e la società hanno su di noi, e sicuramente questa scelta richiede smisurato coraggio. Una persona nasce, va all'asilo, alle elementari, alle medie, alle superiori, all'università, trova lavoro, mette su famiglia, e muore. E’ paralizzante pensare di poter uscire dei binari, dove si può trovare la forza? Lo so, sono tante domande, ma può rispondere a quella che più le interessa.

Francesca



Kierkegaard quando descrive la vita non descrive un’esistenza astratta, ma descrive le difficoltà e le perplessità ricorrenti della propria: “Io mi trovo qui esitante come Ercole; non si tratta di un semplice bivio, ma di un incrocio di vie che s'irradiano in tutti i sensi. Ecco perché è tanto difficile imbroccare la giusta. E’, forse appunto la disgrazia della mia esistenza, l'interessarmi a troppe cose, senza arrivare mai a nessuna decisione: nessuno dei miei interessi [spirituali], nessuno è subordinato all'altro, ma tutti si tengono per mano” [Diario].
Capita così anche a noi: teniamo “per mano” tanti interessi, perché non sappiamo esattamente – come tu affermi - “cosa potrebbe appassionarci per tutta la vita”.
Ognuno ha le proprie ragioni: la famiglia le sue preoccupazioni e noi le nostre aspirazioni. In qualche modo tutti abbiamo ragione. Però le nostre opinioni fanno riferimento al nostro modo di sentire. A un certo punto il conflitto della scelta che prima era vissuto solo interiormente, come indecisione tra ciò che ci piaceva e ciò che ci piaceva di più, adesso allarga i propri contorni. I nostri interessi non coincidono sempre con quelli dei genitori. Il punto di vista è diverso. Ci sono buone ragioni da ogni parte, ma le ragioni non si equivalgono; e si aprono allora nuovi spazi per la riflessione: il conflitto da intrapsichico diventa interpersonale. Attraverso una contrapposizione reale (spesso conflittuale) e argomentata delle nostre motivazioni però impariamo ad esplicitare i vantaggi e gli svantaggi delle diverse prospettive e, grazie a questo chiarimento, potremo fare delle scelte consone ai nostri bisogni. Qual è la posta in gioco? La nostra vita futura. Allora dobbiamo ascoltare prudentemente le ragioni dei genitori, perché ci presentano soluzioni che, a volte, o per impulsività o per mancanza di conoscenza non avevamo considerato. Dopo aver pensato molto, però, dobbiamo abbandonare le giustificazioni degli altri e valutare quelle che realmente ci appartengono: dobbiamo discernere attentamente tra ciò che è semplice curiosità momentanea e i nostri interessi autentici. Dopo aver ascoltato varie opinioni dobbiamo canalizzare le nostre energie per collocarci nella dimensione della realizzazione della nostra vita, seguendo il nostro demone: abbiamo il compito di garantire a noi stessi l'onestà verso ciò che ci appassiona. Non dobbiamo soffocare le nostre passioni, altrimenti devitalizziamo la nostra vita. Rimuovere aspirazioni e bisogni produce frustrazione. Non esistono decisioni giuste o puramente razionali. Dobbiamo tenere conto della nostra natura che ovviamente è complessa e spesso ci presenta tendenze ambivalenti. Lo psicanalista statunitense James Hilmann scrive che: “Il carattere è caratteri; la nostra natura è una complessità pluralistica, una trama multifasica e polisemica, un fascio, un groviglio, una cartelletta piena di fogli. […]. Mi piace immaginare la nostra psiche come una pensione piena di ospiti. Ci sono quelli che si presentano puntuali e seguono le regole della casa, e altri, anch'essi ospiti fissi, che se ne stanno chiusi in camera o si fanno vedere solo di notte; e può darsi che questi e quelli non si siano mai incrociati” [La forza del carattere, 2001]. Dobbiamo saper ascoltare tutti gli ospiti che abitano la pensione della nostra mente, prima di decidere.
L’esistenza è costituita dalla dimensione del progetto per il nostro avvenire. Quando le alternative sono molteplici sentiamo la difficoltà di incanalare la nostra vita. In questo periodo senti maggiormente la responsabilità della scelta, ma come hai detto tu, citando il filosofo danese, la scelta non è un evento raro nella vita. È invece la dimensione costitutiva del soggetto umano; ogni scelta separa, esclude, prospetta alternative e apre nuovi scenari.
Vorrei dirti che prima di decidere è importante decifrare.
Decifrare i propri bisogni, che cosa dà serenità e senso alla vita. È importante comprendere i processi dinamici che si muovono dentro la psiche e che attivano la motivazione. Dobbiamo liberarci dall’idea che dal conflitto occorra affrancarsi rapidamente. Se, come dici tu, la vita è una continua scelta, il conflitto è permanente e saremo chiamati comunque a decidere continuamente. È vero che la scelta della scuola sembra condizionare maggiormente la nostra vita, perché esclude molte possibilità che non potremo più realizzare, ma credo che tale scelta debba andare nella direzione della responsabilità. Siamo noi responsabili del nostro futuro e saremo noi a rispondere delle nostre scelte. Non dobbiamo consegnare la nostra vita ad una valutazione esterna, a significati estranei alla nostra natura. Potremmo dire - con un paradosso - che ciò che ci porta a decidere è qualcosa di decisivo, che prima o poi emergerà nella nostra mente; e che ogni scelta decisiva deve avvenire dopo una lunga fase di decifrazione.
Dobbiamo lasciare un maggiore spazio alla nostra voce interiore, lasciare che tutte le parole che abbiamo ascoltato, dopo aver risuonato a lungo dentro di noi, gradualmente, scompaiano per consentirci di avere la giusta visione della nostra natura. Non siamo nel mondo solo per raggiungere obiettivi, ma per vivere una vita buona, perché – come dicono gli antichi – da una vita buona discende una vita felice. Il futuro porta in sé l'imprevisto e quindi ogni decisione che riguarda il futuro ha la forma della scommessa, forse dell'azzardo. Prendendo una decisione diamo una regola al nostro percorso, diamo una forma alla nostra vita. Chi sarà responsabile dei nostri fallimenti o dei nostri successi? Non possiamo poi attribuire agli altri l'esito del fallimento o dell’infelicità. Viviamo in questo conflitto profondo che non riusciamo ad eliminare: sentiamo contemporaneamente la nostra fragilità e la nostra debolezza. A volte non siamo così sicuri che le nostre convinzioni possano condurci alla felicità. Non dobbiamo dare una risposta agli altri, dobbiamo lavorare per comprendere qual è la nostra strada, qual è l'ampiezza delle possibilità che scaturiranno dalla nostra scelta e quali prospettive verranno aperte. Seneca scriveva che “Tra le cause dei nostri mali c'è il fatto che viviamo imitando gli altri e non ci regoliamo secondo la ragione, ma ci lasciamo trascinar via dalla consuetudine. Quello che non vorremmo fare se lo facessero in pochi, quando molti hanno iniziato a farlo, lo approviamo, come se una cosa diventasse migliore perché viene fatta più spesso; e l'errore, quando è diventato generale, occupa per noi il posto del vero” [Lettere a Lucilio].
Il lavoro non è che una parte della vita, però è una parte importante. Sarebbe bello essere soddisfatti della propria scelta, perché passiamo molte ore al lavoro. Tu dici che occorre decidere tra conformismo e passione; ma tutto questo è anche il risultato di un processo iniziato tanto tempo fa e che si è articolato, in parte, anche nella scuola, e ha lasciato in te una traccia, un gusto, un'idea da seguire. Il tuo demone – direbbe Socrate - non ti inganna. Le cose che ti fanno stare bene a livello fisico e psichico devono essere ricercate, ripetute. Dobbiamo immaginare la nostra vita a distanza di tempo, nel lavoro, nell'amore, in una nuova famiglia, con dei bambini, perché pensare al modello di vita che desideriamo, è un modo per chiarire che cosa vogliamo da noi. Poiché il futuro esercita una grande forza su di noi, come una potente calamita ci attrae e ci spinge in avanti, allora ascoltiamo pure tutti i suggerimenti, ma lottiamo per abitare il futuro che abbiamo immaginato.
Dopo aver osservato bene le caratteristiche della nostra vita dobbiamo decidere dell’importanza che essa deve avere nell’insieme; per fortuna “l’essere costretti – diceva Kierkegaard - “è l’unico aiuto della finitezza”. Il nostro animo che ha sete di infinito se non fosse costretto sarebbe sempre perso da qualche parte e incerto su tutto. Dobbiamo pensare se un certo tipo di studio o di lavoro contribuisce a realizzare meglio la nostra vita. I filosofi esistenzialisti ci ricordano che decidere è un decider-si, un determinare ciò che diventeremo nel tempo. Allora dobbiamo prenderci cura di noi stessi nell’orizzonte di ciò che per noi ha più valore e rende la vita degna di essere vissuta.


Un caro saluto,

Aberto

lunedì 25 maggio 2009

Amore e odio

Caro professore,

Come mai l'amore e l'odio sono due sentimenti opposti, ma allo stesso tempo così vicini? Per esempio un ragazzo si innamora e si fidanza con una bellissima ragazza. Dopo sei mesi lei lo tradisce, e il ragazzo si trova in un momento in cui, amore odio viaggiano insieme; perché? Il ragazzo, ancora innamorato di lei, allo stesso tempo la odia per il suo mancato amore. Dunque mi chiedo, come fanno due sentimenti così opposti a vivere in alcuni momenti insieme?
Stefano


Caro Stefano,
Nel libro “Anatomia della distruttività umana”[1973] 1975, il grande psicanalista e sociologo tedesco Erich Fromm (1900-1980) diceva che è un “luogo comune” che l’amore si possa trasformare in odio. Sarebbe più esatto dire - secondo Fromm - che “non è l'amore a subire questa trasformazione, ma il narcisismo ferito della persona che ama, e cioè che è il non-amore a causare l'odio”.
Però è vero, a volte, è difficile ammettere che amiamo e, sotto certi aspetti, odiamo una persona; la amiamo, perché più in generale vorremmo unirci a lei, e nello stesso tempo detestiamo alcuni suoi aspetti o biasimiamo il fatto che si distacchi da noi e sia insensibile nei nostri confronti.
Difficilmente si odia qualcosa per cui non si prova un particolare sentimento. Se si guarda da lontano è difficile odiare: quindi odiamo perché siamo affascinati e sedotti dall’altra persona e la nostra interiorità è fortemente attivata e coinvolta; ma odiamo perché è stata tradita la nostra fiducia e perché intuiamo che i suoi sentimenti non sono analoghi ai nostri. Prendere coscienza della differenza e del distacco genera sofferenza e scatena in noi una sorta di rabbia, mentre in fondo in fondo non si è ancora spento il desiderio dell’altra persona e siamo certi che la amiamo ancora.
Questo complesso meccanismo di amore-odio evidenzia il momento in cui fatichiamo a giungere alla comprensione di ciò che sta accadendo dentro di noi e alla valutazione di ciò che accade nella realtà. Siamo consapevoli che l’altro si è allontanato, ma la nostra insicurezza e il nostro amor proprio vorrebbero che fosse ancora accanto a noi. Fino a quando non abbiamo razionalizzato tutto quanto, non riusciamo a superare questa situazione.
Non odiamo tanto la persona per l'atto compiuto, ma detestiamo il fatto che si sia allontanata da noi, che provi gioia ed entusiasmo indipendentemente da noi. Poiché vorremmo ancora condividere con lei interessi, tempo e passioni soffriamo e ci esauriamo nel tentativo di comprendere quanto è accaduto.
L’ambivalenza amore-odio rivela aspetti inconsci della mente umana: odiamo per il tradimento, ma nello stesso tempo, in qualche modo, cerchiamo di reprimere la consapevolezza del tradimento. Sentiamo la contraddizione, ma non siamo consapevoli dei processi inconsci che si muovono dentro di noi, a nostra insaputa. Ogni tanto affiorano alcuni sentimenti, ogni tanto affiorano i sentimenti di segno opposto. A volte, come dici tu, ci inquieta scoprire che siamo in grado di amare e di odiare più o meno nello stesso tempo. Vorremmo nascondere l'odio sotto l'amore, ma a volte l'odio emerge nei confronti di chi ci ha tradito, mentre altre volte riaffiora l'amore. Spesso non riusciamo neanche ad accettare di poter odiare una persona che abbiamo amato, e quindi i sentimenti inaccettabili vengono subito cancellati, cacciati nell'inconscio per lasciar spazio all'amore. Un po' perché speriamo narcisisticamente che la persona possa recedere dalle sue decisioni, e scoprire in noi dei tratti piacevoli; ci attendiamo che si ricreda delle proprie scelte e che ritorni verso di noi. A volte è una speranza legittima, a volte è un gioco illusorio. Quando siamo attraversati dai pensieri che le cose potrebbero essere diverse siamo nuovamente colti da questa illusione e scopriamo di essere ancora ben disposti verso l'altro, in grado di perdonare pur di ottenere amore.
Amore e odio rappresentano anche la modalità con cui diventiamo consapevoli di noi stessi: dentro di noi nasce una sorta di conflitto esistenziale che ci chiede di prendere atto della nostra incapacità o della nostra impotenza nei confronti della realtà esterna, dei desideri e degli obiettivi indipendenti dell'altra persona.
Ci rendiamo anche conto che l'odio, che poteva anche avere ragione di essere, nel momento in cui s'impadronisce di noi, si dilata in cerchi concentrici e deforma l'immagine che avevamo della persona. Spesso la deformazione messa in atto ci spaventa. Avevamo un'immagine estremamente positiva e idealizzata della persona amata e ora la nostra valutazione è cambiata, si è spalancata una nuova strada verso criteri di giudizio diversi.
Siamo lenti ad odiare perché facciamo fatica a distruggere l'immagine che avevamo creato, e che nel passato aveva avuto delle conferme; per questo talvolta dubitiamo della legittimità di odiare.
Nella vita impariamo a conoscere le nostre passioni, ma amore e odio non sono due oggetti fisici da descrivere, ma sono due modalità di rapportarsi al mondo e con le quali ci formiamo un'idea del mondo. L’odio è una condizione che ci permette di prendere congedo gradualmente da eccessive identificazioni con l'altra persona e da una eccessiva idealizzazione. Ci ricorda il fallimento della nostra relazione, mentre l'amore lascia filtrare la speranza di poter nuovamente conquistare la persona amata. L'amore ci ricorda la dolcezza che provavamo in compagnia di quella persona, l’odio ci ammonisce che è intollerabile sopportare il tradimento. La distruzione del rapporto di coppia fa nascere l'odio, la speranza del cambiamento richiama di nuovo l'amore; l'amarezza del tradimento richiama l'odio, la speranza di una felicità rinnovata rievoca l'amore. Il tradimento ha generato umiliazione, ha ferito la nostra fiducia, ma anche il nostro narcisismo; e quando prevalgono certi pensieri si rinnova l'odio per le parole e per i gesti che ci hanno fatto soffrire.
Secondo gli Stoici antichi sono i pensieri e generare le emozioni; se i nostri pensieri si concentrano su certi aspetti fanno vibrare le corde dalle quali scaturiscono i colori delle emozioni positive, se fanno vibrare altre corde, nascono sentimenti opposti. Non sappiamo a quali di questi sentimenti dobbiamo obbedire. Gradualmente, sarà il prevalere di uno o dell'altro a farci capire che possiamo perdonare e continuare ad amare anche chi si è allontanato da noi. E attraverso questa consapevolezza riusciamo a prendere distacco anche da quelle emozioni più forti che ci sembravano pesantissime da sopportare. Insomma, i pensieri fanno da detonatore per le emozioni; e, viceversa, le emozioni di rabbia fanno detonare pensieri di odio, mentre quelle positive suscitano fiducia nei confronti del mondo.
L’ambivalenza dei sentimenti di cui parli non indebolisce solo la fiducia verso gli altri, ma abbatte anche la fiducia che nutriamo verso noi stessi e può generare anche rifiuto di sé. Per sviluppare l’amore verso noi stessi abbiamo bisogno di sentirci riconosciuti dagli altri e di sapere che siamo degni di essere amati. Trovo molto belle le parole di Zygmunt Bauman, un grande sociologo contemporaneo: “ciò che amiamo nel nostro amore di sé è un proprio io degno di essere amato. Ciò che amiamo è lo stato, o la speranza, di essere amati. Di essere oggetti degni di essere amati, di essere riconosciuti come tali, e di ricevere adeguata prova di tale riconoscimento. In breve: per essere dotati di amore di sé, ci occorre essere amati. Il rifiuto dell'amore – il diniego dello status di oggetto degno di essere amato – genera odio di sé. L'amore di sé si costruisce con i mattoni dell'amore offertoci da altri” [Amore liquido, 2004]. L’amore degli altri ci rassicura sul fatto che siamo degni di essere amati, che siamo meritevoli di amore. Questa consapevolezza ci conforta nelle relazioni, ci incoraggia ad andare verso nuove relazioni, acquieta la nostra paura di essere rifiutati o non sufficientemente adatti per meritare l’amore degli altri.
Nell’ambivalenza di amore e odio sentiamo che è stata messa in discussione la nostra dignità e, dice Bauman: “Il valore primo, il più prezioso dei valori umani, la conditio sine qua non dell'umanità, è una vita fatta di dignità, non la sopravvivenza a tutti i costi".


Un caro saluto,

Alberto

sabato 23 maggio 2009

L'amore è cambiato?


Caro professore,

L'amore, che è il sentimento che pare abbia caratterizzato tutta l'esistenza dell'uomo, è cambiato e muta durante i secoli? Penso ai miei nonni, che ora si prendono cura uno dell'altro con devozione; ma mio nonno afferma di aver sposato sua moglie perché ormai doveva sposarsi e lei era in età da marito. Quando per molti secoli regnava l'assoluto maschilismo certamente anche l'amore era diverso. Altro importante caso sono i matrimoni combinati. Possiamo dire che l'amore sia cambiato e che oggi amiamo con più sincerità? Conoscendo anche meglio l'altra metà della mela?
Francesca


Cara Francesca,
Chissà se l'amore è cambiato durante i secoli? Le forme d'amore sono talmente varie che è difficile dire. Uno studioso della vita di coppia riferisce che in passato due persone si separavano perché si detestavano, mentre oggi è molto probabile che si separino perché non si amano abbastanza. Certo, è vero, molte volte uomini e donne sono stati insieme per esigenze economiche, per bisogno di protezione o di sicurezza, per motivi sociali legati al ceto di appartenenza o per altri motivi. Oggi, forse, le persone sono meno disposte ad accettare giustificazioni all'unione che non siano il motivo stesso dell’amore. Si sta insieme per amore e l'amore rimane il momento più alto della felicità. Il filosofo Umberto Galimberti scrive a questo proposito: “Oggi l'unione di due persone non è più condizionata dalla lotta quotidiana per la sopravvivenza, o dal mantenimento e dall'ampliamento della propria condizione di privilegio sociale e di prestigio, ma è il frutto di una scelta individuale che avviene in nome dell'amore, sulla quale le condizioni economiche, le condizioni di classe o di ceto, la famiglia, lo Stato, il diritto, la Chiesa non hanno più influenza e non esercitano più alcun potere, sia in ordine al matrimonio dove due persone in completa autonomia si scelgono, sia in ordine alla separazione e al divorzio dove, in altrettanta autonomia, i due si congedano” [Le cose dell’amore].
Come dici tu in passato esistevano anche i matrimoni combinati, e questo fatto suscita oggi tristezza o pensieri di compassione. Possiamo anche accettare di fare un lavoro non eccessivamente stimolante, ma non siamo disposti a rinunciare alla magia dell'innamoramento e dell'amore. Non sempre i lavori gratificano, ma almeno nell'intimo vogliamo che il nostro cuore acceleri i suoi battiti, vogliamo avere la sensazione di sentirci unici e di provare un sentimento speciale per una persona e di essere ricambiati. Parliamo sempre dell'amore; buona parte dei romanzi e dei film parla d'amore. Tutte le canzoni parlano d'amore. Ci appassioniamo alle storie d'amore sui giornali, guardando la televisione, a scuola (anche sul giornalino scolastico c'è una pagina dedicata agli amori che sbocciano tra gli studenti, agli innamoramenti venuti alla luce e alle storie di qualche mese o di circa un anno che vengono definite “storie consolidate”). Fatichiamo però a trovare una definizione univoca di amore. Ci sono tante forme di amore: amore romantico, passionale, impegnato, poetico, malinconico, sentimentale…, ma tutti gli aggettivi sembrano complicare e non semplificare la questione per giungere ad una maggiore comprensione. Però l’amore non nasce sempre secondo le modalità in cui immaginiamo debba nascere. Oggi, ad esempio, sappiamo che il matrimonio è il consolidamento di un percorso d’amore già avviato, ma dobbiamo constatare che in passato, quando erano scarsi il tempo e le occasioni per conoscere persone nuove, caratteri diversi, modalità relazionali inattese ed emozionanti, non c’era talvolta la possibilità di avere un tempo lungo per l’innamoramento. Ciò non toglie che molte coppie, nate nelle forme più variegate, abbiano cominciato ad amarsi e ad innamorarsi stando insieme nel matrimonio. Può sembrare curioso, ma è perché non hanno avuto un tempo prima. Oggi abbiamo molto tempo libero; molti amori nascono a scuola, nel gruppo di amici, proprio perché le persone hanno tempo per le relazioni, per conoscersi e per stare insieme. Un tempo, quando le relazioni erano più difficili e si creavano meno situazioni per stare insieme, molte avventure d’amore sono cominciate proprio a partire dal matrimonio. Molte coppie hanno faticato, certamente; ma sono nati anche dei grandi amori. Le persone hanno imparato a conoscersi (anche a sopportarsi), ma soprattutto, giorno dopo giorno, hanno imparato ad amarsi proprio a partire dalla condivisione dei vari momenti della vita. (Mi vengono in mente alcune storie che Nuto Revelli ha raccontato nel libro L’anello forte). Queste persone si sono sacrificate l’una per l’altra: avevano poche risorse a disposizione e le hanno condivise; nelle difficoltà hanno sperimentato sia l’amore sia la felicità.

Ma, ora, voglio dirti quattro cose:
1. Dici che tuo nonno “afferma di aver sposato sua moglie perché ormai doveva sposarsi e lei era in età da marito”. Questo fatto sembra richiamare un elemento di calcolo o di freddezza nella poesia dell’amore; diventa difficile da accettare, perché spesso riteniamo che il progetto sia un elemento estraneo che rompe l’incanto dell’innamoramento. Vogliamo che non si introducano elementi di interesse in ciò che, se non accade spontaneamente, sembra essere snaturato. Per la cultura greca, però, nessun progetto umano riesce ad infrangere la dura necessità della natura e il suo ciclo inesorabile. Ma nel tempo ciclico dato dalle leggi immutabili della natura si inserisce il tempo progettuale dell’uomo. Se le leggi della natura e l’ordine del mondo non possono essere infranti dall’uomo, l’uomo può realizzare la sua vita nel tempo che gli è concesso. Ma il progetto non è un sogno o un semplice desiderio, e si può realizzare quando si presentano concretamente le occasioni. Come per fare qualcosa occorrono gli strumenti e non solo il desiderio (o la fantasia). E per strumenti, in questo caso, intendo anche i tempi giusti per disegnare un destino comune. Senza concretezza non c’è nessun progetto; e la consapevolezza del limite temporale della vita aumenta il valore che si dà al tempo per poter realizzare percorsi di vita insieme.

Hai scelto una bella espressione per indicare l’amore dei tuoi nonni: “si prendono cura uno dell’altro”; e una bella parola per connotare il modo in cui si prendono cura: “con devozione”.
2. Prendersi cura dell'altro credo sia la qualità essenziale dell'amore. Nel prenderci cura dell'altro mostriamo impegno nei suoi confronti, interesse rinnovato, premura verso i suoi bisogni e dedizione verso la sua vita che lentamente si trasforma. Lo diciamo anche in certe espressioni: una persona tras-curata, infatti, è abbandonata a sé, è ignorata; e se uno è abbandonato presto si tras-cura, ossia si disinteressa a sé, si lascia andare, diventa debole e cede al peso degli anni e della vita. Cura è una parola che richiama anche la terapia, ossia quella modalità di intervento che permette di ristabilire la salute di una persona. Sì, perché l'interesse verso la persona è terapeutico, le permette di sentirsi viva e di sentirsi amata. E chi sa di essere amato è più forte, più resistente, perché l’attenzione è un potente medicamento dell’anima.
3. E’ significativa anche la modalità con cui indichi la loro relazione: con dedizione. La parola dedizione sta a metà strada tra il rispetto e il culto. La dedizione è fatta di rispetto (respicere), ossia della capacità di saper guardare l’altro per quello che è e per la dignità umana che è in lui; perché ognuno dei due è l’unico che conosce le esperienze dell’altro, il suo vissuto, la sua storia. Solo tuo nonno, oggi, porta dentro di sé la storia della nonna e i suoi vissuti. I tuoi genitori sono venuti dopo, e tu dopo ancora. Lui vede nella nonna quello che altri non vedono più, il tempo della sua giovinezza e tanti altri tempi vissuti insieme, le sue fantasie, i suoi sogni e il suo passato. E nella dedizione c’è anche un richiamo al sacro, che ci ricorda il legame con il divino. Nell’amore, infatti, sperimentiamo la forma più importante del legame tra le persone, ed essendo la forma più alta del legame umano è bello dire che è un legame divino. Il devoto infatti ritorna con i propri pensieri a ciò che ama; anche fisicamente vuole stare vicino a ciò che ama. C’è una forma di obbedienza nell’amore: le persone obbediscono alle richieste esplicite e a quelle implicite o silenziose dell’altro perché lo conoscono e lo amano.
4. “Amiamo con più sincerità perché conosciamo meglio l’altra metà della mela?” La conoscenza della persona può aumentare l’amore, ma non basta. Quando si ama qualcuno lo si comprende meglio: a due innamorati basta uno sguardo per capire se c’è qualcosa che non va. È a partire dall’amore, dunque, che aumenta la conoscenza. Il filosofo Umberto Galimberti, nell’ultimo libro L’ospite inquietante, cita una frase di Paolo di Tarso: "Non si entra nella verità senza l'amore (Non intratur in veritate nisi per charitatem)". La comprensione, come vedi, passa attraverso l’amore. Infatti, è proprio grazie all’amore che anche tu riesci a afferrare le sfumature dell’affetto dei tuoi nonni.
Siccome gli adolescenti sono molto svegli e sanno distinguere nelle relazioni ciò che è autentico da ciò che è artefatto, credo che i tuoi nonni siano fortunati perché hanno una nipote molto attenta che sa leggere le tonalità delle emozioni; ma penso che anche tu sia fortunata, perché hai fatto esperienza dell'amore nella forma più alta, che è quella della testimonianza e non della chiacchiera: la testimonianza di una vita vissuta con l’energia dell’amore che contagia e si irradia alle persone intorno.



Un caro saluto,
Alberto